Il figlio di Saul

Il primo lungometraggio di Laszlo Nemes ha un'importanza di primario rilievo. Per decenni, infatti, la cultura europea e mondiale si è interrogata circa l'irrappresentabilità dell'Olocausto, faticando a trovare una soluzione all'enigma: come rappresentare l'irrappresentabile? 
Numerosi tentativi son stati fatti, senza ottenere risultati. Si pensi al colossale Shoah di Claude Lanzmann, il più grande -non solo per durata- documentario sul tema: parla dell'Olocausto, fa parlare le sue vittime sopravvissute, ne mostra i luoghi, ma evita di rappresentarlo. Una prima, parziale risposta alla domanda è stata ottenuta da Alain Resnais con il suo cortometraggio Notte e Nebbia, nel quale la rappresentazione dell'Olocausto viene abbozzata nel punto d'incontro tra il silenzio dei campi di concentramento oggi ed il rumore dei reperti fotografici che ritraggono i corpi martoriati dalla fame, dalla fatica e dalla paura dei prigionieri.
Ma anche Resnais non è riuscito a realizzare una vera e propria rappresentazione dell'irrappresentabile. Nemes sì. Il Figlio di Saul​​​ riesce laddove nessuno era mai riuscito. L'orrore della vita nei lager viene collocato sullo schermo in secondo piano. La macchina da presa di Nemes, infatti, rimane attaccata sulla figura di Saul, spesso inquadrato di spalle in lunghi piani sequenza che lo pedinano lungo la sua esperienza da sonderkommando. Tutto ciò che accade è appena al di là della sua sagoma: relegato sullo sfondo, nella regione del fuori fuoco delineata da una profondità di campo estremamente ristretta. Il dramma di Saul è il dramma DI Saul, eretto qui a cristallo dell'orrore, della paura e della disperazione vissuti dai prigionieri. Lo spettatore diventa testimone di ciò che avveniva all'interno dei campi di concentramento attraverso la storia del protagonista.