Ida

Fil rouge che unisce molto del cinema d'autore europeo più austero, tra passato e presente, la religione, indipendentemente dal credo dello spettatore, è motore immobile di riflessioni su sé e sul mondo. Come i Bresson, come in Dreyer, come in Bergman, così nel primo sforzo di Pawlikowski, che con Ida par proprio figlio diretto dei tre sommi Maestri.
Alla stregua di Come in uno specchio o del Diario di un curato di campagna, Dio è silenzioso in questo film. Si mostra nascondendosi, tanto all'occhio del pubblico quanto al cuore della protagonista. Se è vero che l'identità è, se non del tutto, comunque in larga parte definita dal contesto in cui ci si sviluppa, Ida è al tempo stesso fornita e priva di identità: cresciuta, orfana, in un orfanotrofio e prossima ai voti da suora, l'incontro con la sconosciuta zia, giudice libertino cultrice del piacere terreno e carnale, crea una frattura in Ida, che si scopre di origini ebree. Dal momento in cui le due si conoscono, ecco che la presenza di Dio, che sia quello celebrato dai riti Cristiani o da quelli Giudaici, si fa sempre più trasparente, fino a svanire. Ida prova ad aggrapparsi a Lui, a sé stessa, vano tentativo di non tradire un'identità fragile. Non si può catturare del fumo a mani nude, come non si può affermare un'identità che non esiste più e, forse, mai è realmente esistita.