The room (vincitore del Premio del pubblico al Festival di Toronto), diciamolo subito, è un calcio nello stomaco che ti strappa le viscere e le stritola lentamente.
Joy ed il figlio Jack di cinque anni vengono tenuti segregati dal misterioso Old Nick in una stanza di soli 9 metri quadri. Jack è il frutto di uno degli innumerevoli stupri ai quali viene quotidianamente sottoposta Joy e non ha mai visto il mondo esterno. Eppure sarà proprio lui il mezzo attraverso il quale madre e figlio potranno riassaporare la libertà. Ma non è detto che tornare all’esterno sia facile.
Tutta la prima parte di Room ha una tensione insostenibile. Lenny Abrahamson riesce perfettamente a farci percepire la claustrofobia di una vita che si svolge in 9 metri quadri, la noia di giornate sempre uguali che pure vanno in qualche modo riempite, gli sforzi continui di Joy per inventarsi un mondo fantastico che protegga suo figlio dalla realtà, l’incubo di Old Nick che come un mostro viene di notte mentre Jack dorme nascosto nell’armadio. Una tensione che si acuisce ancora di più quando finalmente Joy mette in atto il suo piano per far uscire di prigione il bambino e cercare così di chiedere aiuto. Ovviamente non sveleremo quale sia lo stratagemma utilizzato ma l’intera sequenza della fuga tiene col fiato sospeso, lo spettatore è totalmente coinvolto, vive lo stupore del piccolo quando scopre il cielo, vive l’angoscia quando la sua fuga sembra destinata al fallimento, è in pensiero per il destino di Joy ancora prigioniera della stanza.
Apparentemente questo clima sembrerebbe stemperarsi nella seconda parte del film, quella che ci racconta il ritorno alla normalità dei due. Qualcuno potrebbe obiettare che il contatto con la realtà avvenga troppo facilmente come se gli anni di prigionia, che per Joy sono stati ben sette, non abbiano provocato traumi. Invece ancora una volta il regista si muove sulla sottile lama di un rasoio e lascia che le crepe emergano lentamente. Sotto l’apparente normalità covano le ferite aperte. Così Joy scopre che nel frattempo i genitori (Joan Allen e  William H. Macy ) hanno divorziato, che la madre si è rifatta una vita accanto ad un nuovo compagno (Tom McCamus) e che la vita, in qualche modo, è andata avanti per tutti tranne che per lei. Si scontra con l’insensibilità dei media, con il rancore che prova per la madre, con lo sguardo di un padre che non riesce a guardare negli occhi il nipote. Improvvisamente Joy si sente abbandonata da tutti. Ancora una volta sarà Jack a darle la forza di andare avanti. Room come dicevamo è uno di quei film che colpisce nel profondo dell’animo e che, inevitabilmente, suscita commozione. Una pellicola dura e tesa anche nei momenti mainstream ed hollywoodiani. Per fortuna il regista ha avuto la brillante idea di alleggerire il tutto decidendo di adottare il punto di vista di Jack. L’intera vicenda è filtrata attraverso il suo sguardo infantile sul mondo e dalla sua voce fuori campo che spesso lascia spazio alla meraviglia della scoperta. Jack, come spesso accade ai bambini, si adatta alla nuova realtà molto più in fretta rispetto alla madre, riesce a cogliere lo stupore dietro le piccole cose e spesso le vive come fossero una favola. E steso su di un camioncino mentre fugge, riesce a farci guardare il cielo anche a noi spettatori, come fosse la prima volta che lo vediamo.