Fury
 
Dagli ospedali da campo il sangue viene gettato via a secchiate. Per le strade i corpi di alcuni tedeschi, stanchi di combattere una guerra oramai perduta, giacciono lungo i pali della luce, impiccati dalle SS. I carri armati avanzano nel fango schiacciando cadaveri ridotti in poltiglia, nelle fosse comune giacciono mucchi di corpi, i camion portano morti a centinaia. Nella campagna lunghe file di cittadini senza più nulla avanzano mentre tutto intorno si levano colonne di fumo, abbandonati giacciono cavalli carbonizzati, usati come fonte di cibo da vecchie donne. I corpi dei soldati sono sporchi, i loro vestiti laceri, le loro schiene ricoperte di cicatrici di bruciature; quando muoiono i loro corpi esplodono, le loro gambe vengono falciate via. E nel carro armato l’urina si mescola alle feci e ai resti del corpo di un uomo sparsi ovunque.
È almeno dai tempi di Salvate il soldato Ryan (1998) che il cinema americano ha deciso di descrivere la guerra con nudo e crudo e Fury di David Ayer sicuramente si iscrive in questo filone spingendosi oltre limiti sin qui mai osati da nessun cineasta. In fondo al regista sembra non interessare nulla se non descrivere gli orrori dell’ultimo conflitto mondiale senza remore o pudori di sorta, ponendosi l’ambizioso obiettivo di confezionare un film che assurga immediatamente al rango di classico del cinema. Ed il bello è che Fury ci riesce in pieno confermando un talento che sin’ora aveva dato vita a prove altalenanti. Stavolta invece David Ayer praticamente non sbaglia nulla e firma un film magistrale, girato con uno stile secco e senza fronzoli eppure capace di costruire sequenze cinematograficamente perfette. La prima decisone del regista è quella di affidarsi a stereotipi. L’umanità che abita il suo carro armato è quella già vista in centinaia di altri film di guerra. Wardaddy (Brad Pitt) è il saggio sergente indurito dalla guerra che gode della piena fiducia dei suoi uomini, colui che già tante volte è riuscito a salvarli nelle situazioni più disperate. Bible (Shia LeBouf) ha scritto il proprio personaggio già dal soprannome, lui è l’uomo di fede che si sforza di mantenere degli ideali religiosi in un mondo alla deriva. Coon-Ass (Jon Bernthal) è il rozzo della situazione e a completare il quadro c’è Gordo (Michael Peña) nella parte che un tempo sarebbe toccata ad un nero. Infine, l’ultimo arrivato Machine (Logan Lerman). il classico novellino sbattuto al fronte come carne da macello. Rinchiusi nel microcosmo del loro carro armato, in un continuo dialogo tra dentro e fuori, questi personaggi sono semplicemente dei corpi votati sin dalla prima immagine alla morte e alla distruzione. Hanno il destino scritto sul volto e forse addirittura cercano la morte come unica salvezza agli orrori di un mondo che oramai sembra avergli tolto ogni umanità. David Ayer lascia che i loro giorni scorrano uno dopo l’altro mentre sangue e fango si accumulano sullo schermo senza sosta. La guerra viene mostrata assai poco in questo film che supera le due ore. Gli scontri sono ridotti al minimo e trovano il loro culmine nella lunga battaglia tra i tre carri armati americani e quello tedesco, in uno scontro di lamiere contorte che bruciano. Non è il conflitto il protagonista della pellicola, ma la morte mostrata in ogni possibile fotogramma in tutta la sua crudezza. Ecco che allora quando i nostri cadono vittima di un imboscata lo scontro dura pochi secondi ma quel tanto che basta per mostrare uomini arsi vivi dalle fiamme. Piuttosto il regista decide di lasciare spazio al dialogo tra il veterano Wardaddy ed il novellino Machine in una sorta di percorso di iniziazione del giovane alla vita o meglio alla sopravvivenza in tempo di guerra. E nel narrare questo viaggio Ayer sceglie un taglio da cinema classico hollywoodiano capace di momenti straordinari. È il caso del bellissimo piano sequenza in cui Machine viene costretto ad uccidere un nazista. O del finale con i nostri eroi asserragliati nel loro carro armato e circondati da centinaia di nemici come fossero cowboy nel fortino  che combattono contro gli indiani. Ma laddove Ayer dimostra tutta la sua bravura è nella sequenza in cui Wardaddy e Machine si concedono un momento di “svago” in casa di due donne tedesche. I due sono seduti a tavola e si apprestano a mangiare. Machine ha appena fatto l’amore con la più giovane delle due e Wardaddy finalmente si è potuto lavare. Un momento di pace idilliaca interrotto dall’arrivo degli altri soldati. Da questo momento in poi va in scena un duello, con i rozzi soldati che evidentemente vorrebbero violentare la ragazza e Brad Pitt che si erge a difensore delle due donne. La tensione sale di minuto e minuto sino a diventare insostenibile e ad ogni attimo si attende il momento in cui Wardaddy esploderà. Il tutto però non è raccontato attraverso i dialoghi ma semplicemente tramite i gesti e la posizione dei corpi. Quello immobile di Pitt che domina la scena, quello tremante di Machine ed intorno gli altri che provocano continuamente i due con i loro atti come quando, con un gesto tanto semplice quanto magnifico, girano le loro sedie e si mettono a guardare Wardaddy a braccia conserte in un atto di sfida. Viene da pensare a come Tarantino sarebbe stato capace di girare una simile scena, cercando di costruire la tensione con dialoghi interminabili laddove invece Ayer sfrutta le caratteristiche tipiche del cinema, lo spazio, gli attori, le loro reazioni corporee e la macchina da presa che esplora la mimica facciale stringendo lo spazio, per costruire un momento di grandissimo cinema. E poi all’improvviso, quando meno te lo aspetti, come un consumato maestro, ecco che David Ayer fa partire un racconto, attraverso la voce di Gordo. Un aneddoto di guerra che apparentemente non c’entra nulla con la situazione e che pure riesce in pochi momenti a ricostruire un’intera vita, quella di Wardaddy, ed un’intera atmosfera, quella del conflitto. Torna allora alla mente una sequenza analoga ne Lo squalo di Steven Spielberg, quel dialogo bellissimo, scritto da John Milius, che è il racconto di Quint nel quale il nostro rievoca il naufragio della corazzata Indianapolis ed attraverso le sue parole getta lo spettatore in alto mare ad aspettare con lui la morte per bocca degli squali. David Ayer riesce a far rivivere quel modo di fare cinema, sceglie di ancorarsi al cinema classico e al genere americano per eccellenza, il western, per girare un film che avanza inesorabile come un carro armato, costruendo sequenze perfette che si tratti di uno scontro tra mostri di acciaio, di un’uccisione a sangue freddo o di un pranzo in cui la tensione sale senza bisogno di troppe parole ed in cui si scopre che l’amore di una vita, pochi secondi dopo, giace cadavere tra le macerie. Peccato solo per quegli assurdi raggi laser aggiunti in post produzione che sì, certamente aiutano a capire la traiettoria delle pallottole, ma troppo spesso trasformano gli scontri in una involontaria parodia di Guerre stellari. Perché per il resto Fury è già un grande classico del cinema ed uno di quei film al quale dovranno tornare tutti quelli che hanno voglia di capire come veramente si dirige un film praticamente perfetto.
EMILIANO BAGLIO