Border – Creature di confine
Un film che è una fiera delle occasioni sprecate.
 
Tina (Eva Melander) è una donna dall’aspetto animalesco così come il suo incredibile fiuto che le permette, nel suo lavoro alla dogana, di percepire i sentimenti delle persone scoprendo così tanto un contrabbandiere di liquori quanto un insospettabile uomo d’affari che nasconde materiale pedopornografico nel suo cellulare.
Convive, forse per non sentirsi sola, con Roland (Jörgen Thorsson), un uomo che la tradisce costantemente e che sembra interessato solo ai suoi cani.
Gli unici momenti in cui si sente libera è quando cammina a piedi nudi nella foresta incontrando quegli animali con cui pare avere un rapporto speciale, quasi di fratellanza.
Finché non incontra Vore (Eero Milonoff). La donna si accorge immediatamente che l’uomo (o quel che è) nasconde qualcosa eppure al tempo stesso si scopre irresistibilmente attratta, in maniera appunto animalesca e dirompente, da quell’essere così simile a lei.
Border, opera seconda di Ali Abbasi regista di origini iraniane trapiantato in Svezia, sembra essere il festival delle occasioni sprecate.
Tratto da un racconto di John Ajvide Lindqvist (del quale avevamo già visto la doppia trasposizione di Lasciami entrare) il film sembra costantemente incapace di scegliere quale strada percorrere.
Abbasi da un lato vorrebbe costruire un ambizioso film d’autore che si ponga come chiara metafora della situazione politica europea rispetto all’immigrazione.
Un racconto che quindi, partendo forse anche dalla propria condizione personale di esule, rifletta appunto sul concetto di confine, inteso sia fisicamente come limite tra le nazioni ed i popoli sia come limite che separa la “normalità” dalla “diversità”.
Si tratta di un progetto ambizioso nel quale il regista getta temi pesanti quali lo sfruttamento del diverso da parte degli umani ed il conseguente spirito di vendetta di quest’ultimo (incarnato da Vore e dai suoi atti quasi terroristi) contrapposto all’impossibile integrazione sognata da Tina.
Purtroppo Abbassi appare un regista incapace di svincolarsi da una visione priva di personalità che si adagia su una modesta routine esemplificata benissimo dalla sequenza d’apertura del film che da la cifra di uno sguardo incapace di esprimere una propria personalità ed una propria visione del cinema e del mondo.
Insomma, per dirla altrimenti, è pieno di film girati come Border.
Ancora peggio va con gli altri temi che vengono messi sul piatto con una leggerezza ed un disinteresse francamente spiazzanti all’interno di una trama piena di buchi.
Tutta la parte poliziesca del film viene risolta in poche sequenze prive di una vera e propria evoluzione e che risultano avulse dal resto della pellicola.
In realtà ad Abbassi non interessa per niente sviluppare coerentemente questa parte e la mette lì alla bella e meglio impegna dosi il minimo possibile.
Lo stesso dicasi per il film di genere, potente, visionario ed eversivo, che avrebbe potuto essere Border.
Il materiale ci sarebbe pure ed affonda le sue radici nella tradizione mitologica e fantastica del nord Europa.
Ma anche qui non si riesce ad andare al di là di una descrizione superficiale in cui l’evoluzione dei personaggi ed in particolare quella di Tina risultano spesso incomprensibili
Il risultato è che sono tanti i punti oscuri non sviluppati degnamente.
Cosa accade alla donna quando scopre la sua vera natura, la sua origine e la sua storia?
Perché irrompe in casa sua, spinta da un furore primordiale e caccia Roland?
Cosa accade veramente al figlio della coppia che abita vicino a lei e perché Vore sceglie proprio loro per compiere la sua vendetta?
Domande che spalancano altrettanti buchi di sceneggiatura.
Rimarrebbe l’eros a tratti bestiale e travolgente con punte grottesche espresso da Tina e Vore e a quell’accoppiamento che è forse l’unica sequenza con una possibile sebbene inespressa potenza.
Anche in questo caso Abbasi non si spinge più in là di tanto, non riesce ad essere veramente disturbante e viene persino da sorridere se si pensa al cinema mutante del primo Cronenberg a cui tanto deve questo momento.
Una sensazione che viene amplificata da un finale francamente sconcertante in cui il regista si rifugia nella prole, nell’avere un figlio da accudire, per ricondurre tutto il potenziale eversivo del suo discorso nell’alveo della buona famiglia in fondo pure un po’ borghese.
Non c’è nessuna rivoluzione da fare, nessun ordine da sovvertire; al limite i freaks possono rifugiarsi tra le foreste finlandesi e rinchiudersi in una sorta di ghetto oppure appunto, come sembrerebbe fare Tina, adattarsi al modello di società precostituito ed allevare figli rinunciando alla propria natura.
Onestamente dinanzi ad un messaggio così consolatorio, conciliante e reazionario cascano le braccia.