Aftersun
Una cartolina sul letto, un tuffo a mare di notte, frammenti di discorsi, un tappeto, ricordo di quel viaggio, sul quale poggiare i piedi al mattino.
Frammenti che riemergono dal passato, sotto forma di riprese video amatoriali che vengono fatte scorrere avanti ed indietro sino a  disfarsi in una sequenza d’apertura straordinaria a metà strada tra video arte e film sperimentale.
A guardarle è quel riflesso che intravediamo per un momento sul televisore, Sophie che oggi è adulta e madre.
Sono i ricordi di una vacanza di tanti anni prima fatta con il padre trentenne Calum (Paul Mescal) quando Sophie (Francesca Corio) era appena una bambina di 11 anni.
Giorni che si susseguono sempre uguali in una struttura turistica significativamente come tante, che si trova in Turchia ma potrebbe essere ovunque.
Un non luogo per eccellenza con la sua piscina, la sala giochi, le serate con l’animazione triste tipica dei villaggi turistici.
Giorni passati a nuotare, a fare gite, ad immergersi sott’acqua, a visitare teatri e terme.
In Aftersun apparentemente non succede nulla, Charlotte Wells al suo esordio narra una vacanza come tante tra un padre (separato) e sua figlia.
A travolgere lo spettatore, oltre alla bravura dei due interpreti, è l’amore infinito e totale tra i due, un sentimento totale, rappresentato con assoluta purezza e che invade il cuore di chi assiste al film.
Eppure in questa vacanza apparentemente spensierata, in questo attimo sospeso nel tempo che alla fine si vorrebbe non finisse mai, c’è sempre presente un sentimento velato di profonda tristezza.
Charlotte Wells non spiega mai nulla, lascia piccolissimi indizi come altrettante briciole di pane che lasciano tutto all’intuizione dello spettatore.
Aftersun quindi può risultare un film respingente visto che, come detto, in realtà non accade nulla.
Difficile da spiegare a chi non lo abbia visto, soprattutto senza svelare troppo.
Tuttavia, dietro quegli occhi colmi d’amore, è impossibile non vedere il male di vivere che ti impedisce di andare avanti.
Dinanzi ad una bambina che già vorrebbe essere donna, che passa le sue serate con persone più grandi, che vive i primi fremiti dei primi baci, Calum promette un futuro in cui i due si diranno tutto e per un momento gli si crede pure.
Ma quel dolore diventa sempre più presente, in quella fuga notturna, nella cartolina lasciata sul letto, nei frammenti di discorsi, nell’incapacità di salire sul palco a cantare con la propria figlia Losing my religion dei R.E.M., pezzo scelto non a caso.
Così come non sono casuali altre due canzoni (Under pressure dei Queen e Tender dei Blur) con le quali Charlotte Wells gioca con il sonoro, isolando le voci dalla musica e trasformandole quasi in un disperato grido di aiuto.
Tre pezzi che, in modo diverso, parlano tutti dell’incapacità di andare avanti.
Indizi, appunto, come quelli sull’infanzia di Calum o il suo pianto disperato, il suo chiedere scusa alla figlia, la promessa, come già detto, di essere sempre il suo confidente mentre in qualche modo si tira avanti un altro giorno, con gli occhi di entrambi colmi d’amore.
Sino al giorno in cui la vacanza finisce e si rimane semplici figure dietro delle porte battenti, intrappolati per sempre in un limbo che ha la forma di una discoteca è che forse è l’inferno, forse il paradiso.
Tutto quello che viene raccontato in Aftersun proviene dalla stessa biografia della regista; il cinema come terapia, come mezzo per elaborare i traumi.
Mentre noi spettatori ci accorgiamo che la bellezza, l’amore ed il dolore di Aftersun ci hanno lasciato letteralmente devastati.
EMILIANO BAGLIO