Non è esattamente un film con effetto sopresa, cosa succederà lo si prevede quasi subito. Più le scene si susseguono, più la storia prende corpo e i commenti interiori del tipo “Ora succede questo” oppure “ho capito dove vogliono andare a parare”  o “é stata lei/lui" si susseguono con intervalli brevi e persistenti. Recitazione abbastanza buona, unica ragione per cui ho dato la sufficienza, Framke Jenssen su tutti, attrice che ho sempre apprezzato. Tuttavia, non è un film memorabile, ne sento il bisogno di rivederlo in futuro. 

 

La trama non è delle più originali: Katherine (F. Jenssen) una donna che si risveglia in un letto d'ospedale, immobile e colpita da un sindrome molto rara, la cosiddetta “Locked-in” (una specie di coma a metà) si ritrova in questo stato a seguito di un incidente. Per scoprire cosa le è successo, veniamo catapultati in una serie di flashback, dove scopriamo che Katherine è una donna fredda e manipolatrice e madre adottiva della protagonista Lina (R. Williams) con la quale si instaurerà un rapporto a dir poco conflittuale, soprattutto quando Lina sposerà Jamie (F. Cole), che è il figlio di Katherine che soffre di crisi epilettiche. La trama da soap opera prende forma quando pian piano le maschere di tutti cadranno, arrivando a scoprire cosa ha causato l'incidente scatenante e le inevitabili ripercussioni.

Il punto di partenza non era malissimo, ma purtroppo Locked in non riesce a soddisfare chi lo guarda. Appare piatto, prevedibile. Un ennesimo thriller psicologico dei giorni nostri che fanno rimpiangere il passato, che segue una standardizzazione da catena di montaggio, stessa luce, stessa storia, stessa atmosfera, zero effetto sorpresa. Insomma, non ci sono più i thriller psicologici di una volta.