Il gioco della servitù volontaria

Il “principio del piacere” assorbe il “principio della realtà”, la sessualità sembra venir liberata, mentre viene semplicemente liberalizzata ed amministrata come strumento di adattamento passivo dalla logica del sistema. Cadono gli stupidi arcaici tabù sul sesso in vigore presso società in preda alla scarsità, ma non per questo il sesso libera sè stesso trasfigurandosi in eros.

(Herbert Marcuse)

Albergo di lusso.

Hal Portefield, ricco erede di una catena di alberghi, riceve Rebecca, una dominatrix,  una professionista, la cosiddetta padrona nelle pratiche indicate dall’acronimo BDSM.

Rebecca lavora per la Lichter Heynes e Associati e l’incontro prevede una propedeuticità: compilare un modulo dove il cliente deve rispondere ad una serie di domande su malattie, eventuali ricoveri per dipendenze, età del primo rapporto sessuale.

C’è un contratto da firmare nonostante i due sembrino conoscersi bene,

Lui  fa un’ordinazione al ristorante e lei si adopera a organizzare i documenti nella sua valigetta business.

Si prevede anche una registrazione oltre all’inizio dell’umiliazione verbale e della sottomissione fisica.

Nessuna scena erotica né tantomeno pornografica: Rebecca non tocca e non si fa toccare, non è qualcosa di fisico ma di mentale.

Rebecca toglie la parrucca bionda…

Nulla è come sembra e tutto appare per quello che non è…

Tutto avviene nello spazio chiuso di una camera d’albergo, come nello spazio mentale/claustrofobico dei protagonisti, l’uno per scelta, l’altra per professione, forse.

I ruoli non si invertono mai, ma la metabolè aristotelica fa ripetutamente il suo ingresso nella storia, sebbene il colpo di scena finale tanto annunciato non sia di certo l’aspetto più sorprendente.

Il sesso, diversamente da ciò che cinema e letteratura ci hanno abituati a immaginare c’entra ma fino ad un certo punto, queste relazioni vanno oltre, sono “penetrazioni mentali”, più che fisiche e per chi le pratica sono più coinvolgenti del sesso tradizionale, che resta sullo sfondo o non c’è proprio.

Chi comanda chi e cosa comanda cosa…

Chi comanda cosa e cosa comanda chi…

Il gioco della servitù volontaria che vede l’umiliato padrone “consapevole” in questo caso della propria umiliazione e il servo, hegelianamente padrone del padrone, a sua volta però servo del servo.

Un gioco ad incastri divertenti e intriganti, un film frenetico e affannato nella esplicitazione verbale e dialettica di un intreccio dove la sceneggiatura deve essere implacabilmente perfetta.

Frammenti di un discorso perverso dove il carnefice e il masochista sono le facce della stessa medaglia.

Un gioco di potere, un gioco d’azzardo nel quale è lecito rimanere incastrati e dal quale è difficile sottrarsi, ognuno attraverso la sua maniacalità, nevrosi, follia, forza o debolezza che sia.

Una fragilità esistenziale che cerca di colmarsi attraverso una condivisione duale sulla quale costruire un alibi relazionale  più o meno funzionale.

Un distopia carnale senza carne, dove si cerca di conciliare l’esteriorità dei corpi con l’interiorità di un vissuto estremo e conflittuale.

Un film che offre un ritratto estetizzante, a tratti stucchevole,  dove tuttavia “l’idea che la  superficie  sia superficiale è un idea molto superficiale”.

Un confronto relazionale costruito su un vissuto coniugale alternativo, economicamente privilegiato, nel quale tuttavia occorre interpretare un ruolo ben definito, quello di azzerare la propria intimità e mettere sé stessi in balia dell’altro, che diviene essenziale per costruire la propria dimensione di fuga dalla realtà insoddisfacente, routinaria e banale.

La finzione cinematografica ritrae la finzione relazionale costruita sulla necessità dell’espressione altrimenti inesprimibile della propria interdipendenza.

Un metaverso sessuale dove la chat è multidimensionale e il gioco di ruolo pura virtual reality,  perché dialogo e azioni prevedono molteplici protagonisti, nonostante sembrino apparentemente due, quei due che solo in “un’altra dimensione” hanno il coraggio di essere “se stessi” fino in fondo, quel fondo che il mondo reale non deve vedere.

Un gioco psicologico al massacro, per soddisfare la propria risposta ad  un godimento, così intimo ma tuttavia così esposto e artificiale.

Zachary Whigan rappresenta il surrealismo della pulsione, perché la pulsione gode in maniera surreale; costruisce un montaggio dove la metasceneggiatura prevede la sceneggiatura dove gli attori sono a loro volta registi, attori e sceneggiatori in preda alla pulsione che è anarchia, lussuria, eccedenza mai riproduttiva; non è affatto incontro di corpi ma scontro di menti e dove trionfa il surrealismo della sessualità scombinata.

L’inganno è il vero protagonista, la maschera il maquillage, la performance  un apparente mutevole divenire già programmato da quel mercato che imprigiona gli attori ciascuno nell’immagine dell’altro condannanti  dalla presunta libertà di scelta.

Sanctuary è un password e anche il Santuario del BDSM, dove l’atrofia degli organi mentali supera quella degli organi sessuali e la sacralità dell’eros si perde nel labirinto della reificazione.

L’assimilazione fallico-feticistica della vita sessuale è un frutto bacato dell’iperedonismo contemporaneo e non il prodotto di una liberazione effettiva della sessualità e dell’erotismo.

La scarica pulsionale viene adoperata per raggiungere un godimento d’organo immediato che cancella il desiderio e la quota di angoscia.

( M. Recalcati)