Il primo pensiero che viene spontaneo fare è che l'intelligenza non sia stata la prerogativa principale degli ufficiali nazisti. Ed invece, come tutti, forse anche i militari volevano credere. Credere che alla fine della guerra avrebbero avuto un mondo migliore, credere nelle persone, credere che l'orrore avrebbe lasciato spazio all'arte e alla bellezza, credere di non essere solo degli assassini, ma vittime delle circostanze. Anche Klaus Koch non è diverso, convinto che possa esserci un'amicizia anche tra carceriere e prigioniero, che quello che il suo"amico" gli racconta sia vero.
Oltre a narrare gli orrori del campo di concentramento, il film ha il merito di far trasparire l'umanità delle persone. Ai prigionieri viene restituito il nome, in un bel finale con l'elenco delle vittime, di tutte le nazionalità, tutte accomunate dallo stesso destino. Un destino a cui Gilles, un ottimo Nahuel Pérez Biscayart, si sente accomunato, tanto da voler scambiare il suo con quello di un italiano, meno fortunato. Agli aguzzini viene riservato, naturalmente, un giudizio severo, sulle loro responsabilità, sulla voglia di vendetta che li anima, tanto da scannarsi anche tra loro. Non ci sono personaggi positivi tra loro, neanche Koch, che prova a riscattarsi, ma solo per proprio tornaconto.
Una curiosità sulla lingua utilizzata nel film: è stata inventata di sana pianta dal regista e dai produttori, con l'aiuto di alcuni linguisti, che hanno creato un vocabolario di 600 parole.