Già vincitore del Torino Film Festival 2019 con A White, White Day, Hlynur Pálmason torna alle bianchissime terre desolate di mondi nordici al confine tra visibile e invisibile, dando vita ad un film profondamente esperienziale con le tinte del western più vero, un’epopea tragica dalla Danimarca all’Islanda del XIX secolo. Un prete-fotografo, Lucas, e un’unica missione: costruire una chiesa, diffondendo la fede in quella terra di nessuno, un luogo a cui non appartiene, estraneo alla lingua e alla sua gente. Ma estraneo soprattutto ad uno sconfinato paesaggio incontaminato che non lascia scampo, nella sua fatale natura distruttiva, che tutto divora senza curarsi della lingua che parliamo e del dio in cui crediamo. Così Lucas parte via mare, ma soprattutto si inoltra via terra, con pesanti casse di legno in spalla per trasportare tutto il necessario (fotografico e religioso) e partire per quell’avventura di fatica e gelo, dove i morti (umani e animali) vengono abbandonati sul cammino, come tombe inaspettate a tracciare la strada solcata, come alimenti di una terra affamata e mai sazia.
Come nei precedenti film (cortometraggi compresi) Pálmason indaga i luoghi da abitare, o meglio abitabili, con edifici da costruire nel mezzo di un niente inospitale e che rimangono in sospeso prima di diventare casa di qualcosa, dal sapore di famiglia o, come in questo caso, di spirito. Era una casa da ristrutturare resistente alle intemperie in A White, White Day, un memoriale sacrificale in Winter Brothers, una capanna su un palo per giocare in Nest, una chiesa ai piedi di una montagna appunto in Godland. Ma rimane il dubbio di come inserire un’anima in quella materia (ciò che l’inglese distingue tra “house” e “home” per tradurre “casa”), come fare entrare insomma il calore familiare in mezzo a quattro mura di cemento, come invitare i fantasmi degli antenati tra i sassi di un monumento sacrificale. Come può allora entrare Dio tra quei pezzi di legno inchiodati insieme, in una terra la cui unica legge punitiva pare essere invece quella del paesaggio più distruttivo?

Nel frattempo si accumulano storicamente le prime fotografie di quei luoghi sperduti in cima al mondo (ritratti soprattutto), scattate proprio da Lucas su antichissime lastre al collodio, prima testimonianza ingannevole di un tempo statico che in quell’Islanda selvaggia pare invece del tutto impossibile. Impresa fotografica assimilabile per certi versi a quella del protagonista del meraviglioso Blanco en Blanco di Theo Court, anche lì un fotografo, anche lì in un mondo desolato ad inizio del XX secolo da rappresentare (in quel caso la Terra del Fuoco). Ma dove quest’ultimo lavorava su una violenza amorale perpetuata dalla stessa umanità, in un genocidio truculento che l’immagine latente fotografica poteva solo manipolare, in Godland Pálmason è ancora più pessimista circa il ruolo di quella fotografia, perché in Islanda ad essere violenta è innanzitutto la natura stupefacente che ci si ritrova davanti. Impossibile quindi trasformarla in un istantaneo quadro pittorico da contemplare, perché prima di guardarla ci avrà già fulminato mortalmente, come esseri di passaggio in una terra dove il nostro contributo è solo aggiunta o sottrazione. Sì, perché, come suggerisce il titolo originale (Volaða land - “Terra malformata/malferma”) il tema essenziale che Pálmason sviscera è proprio l’inestinguibile metamorfosi, il mutamento inarrestabile a cui tutto è destinato. Nemmeno infatti l’arrivo alla meta, quella chiesa finalmente eretta in un luogo stabile, può donare tranquillità. Perché la calma di quei paesaggi allo stesso tempo infuocati e gelidi è solo illusoria, tanto che cambiano completamente di colori e struttura a distanza di pochi kilometri, dove l’ombra di un ghiacciaio si localizza dinamicamente a pochi passi dai piedi di un vulcano in eruzione.
Persino il linguaggio si fa variabile, perché quell’islandese tanto complicato per Lucas è infinitamente differenziato, frammentato, in un divenire di parole in cui “pioggia” si può dire con centinaia di termini diversi. Sfumature di lingua per una terra a sua volta sfumata, dove la via di mezzo non esiste, è tutto e nulla insieme (una terra, da titolo, malformata ma che continua a formarsi).

Pálmason trova insomma la sua perfetta sintesi cinematografica, di visione e di estetica: dove l’ormai consolidata immagine granulosa a pellicola (meravigliosamente organica) si unisce ad una materica musica frastornante che nel farsi suono diventa richiamo della natura eppure anche suo dolorosissimo lamento.
Impossibile allora immortalare vite, impossibile congelare la fede, impossibile persino assecondare la propria presunzione di colonizzatori.
Come una trave vacillante sempre pronta a cadere.
Come la carcassa di un cavallo che continua senza sosta a trasformarsi, mentre la montagna monumentale la osserva diventare scheletro e il paesaggio la inghiotte in un pasto senza fine.

Da Il Buio In Sala - Re­so­con­to del 40 To­ri­no Film Fe­sti­val (2022)