La mitologia del reale di Bolsonaro

Un documentario può essere distopico? Si può raccontare un reale che ancora non esiste? È l’impresa riuscitissima (e davvero impressionante) di questo innovativo film diretto da Adirley Queiros e Joana Pimenta, che unendo realtà e finzione tratteggiano la sovversiva mitologia del reale che potrà esistere da qui a poco tra le vie periferiche di un Brasile profondamente lacerato (dal regime di Bolsonaro in primis). Un gruppo di sorelle (figlie sparpagliate di un noto criminale locale - “una figlia lì e l’altra qui”) si destreggia tra i luoghi dimenticati di Sol Nascente, alla periferia di Brasilia. Qui infatti sono diventate proprietarie di un lotto di terreno, sotto il quale si intersecano varie tubature di petrolio. E da lì hanno creato un business estrattivo familiare altamente redditizio, allestendo persino un vero e proprio avamposto, sospeso tra le torrette di guardia armate e quelle di petrolio, che esce densissimo a riempire fiumi di barili. L’oro nero viene così aspirato dal cuore della terra per poi essere trasformato in altri infiniti ori, per guadagnare, da barattare, con chi si trova in quelle aree di favelas. E poco importa se è considerato criminale. Chitara, la capa tra la sorelle, detta le regole di quel microcosmo, impone prezzi e condizioni persino ai rider più temuti e spietati del posto.
E intanto il petrolio brucia, con un fuoco tossico e artificiale, aranciato come un tramonto che in Brasile tarda ad arrivare. Ma se nel già citato Rodeo le fiamme faticavano ad uscire rimanendo solo scintilla interiore e simbolo perfetto di una libertà sopita ma ancora possibile, qui il fuoco è sì costante presenza sul terreno, ma a rappresentare l’aridità, come da titolo, di una terra infertile che può tornare a vivere solo accesa dalla benzina. Anche in Ema di Pablo Larrain si appiccavano incendi, ma di nuovo per urlare la propria indipendenza, annunciare a gran voce (in quel caso ballando) la propria libertà. In Dry Ground Burning invece la sensazione è che persino le fiamme siano imprigionate dalla dittatura di Bolsonaro, con i fucili puntati e l’assetto d’attacco spianato.

Avevamo Sol Nascente in pugno, abbiamo incasinato le cose” dice una di loro. E quel momento segna infatti un cambiamento per le sorelle. Un prima e un dopo. Quando si era unite, quando ci si è separate. Prima della prigione, dopo la scarcerazione. Un tempo in cui esisteva la notte e uno in cui esiste solo il coprifuoco. Di armi esibite per difendersi, e ora riposte come cimeli di un passato impossibile. Perché ora non si lotta più sulle torrette, ma in mezzo alle strade proponendo un alternativo programma politico sullo scooter. Ma quella è solo la prima impressione, perché in realtà in Brasile nulla è mai cambiato, se non in un paesaggio ancora più dimenticato e ancora più ricolmo di polizia (che è ovunque, anche se non si vede), ora a cavallo, ora in tecnologici tank militarizzati da combattimento (che sembrano usciti dalla migliore fantascienza), ma sempre corrotta e corruttibile, anche se grida gran voce “Brasile al di sopra di tutto”.
Perché lì gli ultimi rimangono ultimi, e Bolsonaro rimane Bolsonaro, sempre al potere ad essere festeggiato per l’ennesima ingiustizia, dove solo la musica diventa ipotesi di sogno, di amori, di serenità. Con la notte cupissima illuminata sempre e soltanto dalle luci di petrolio, fanali in avvicinamento, fari puntati. Perché “se vedi qualcosa lampeggiare devi fare attenzione”. A rimanere uguali sono infatti anche le battaglie per cui combattere, le ingiustizie da contrastare.
E ora bisogna essere sorelle guerriere con ancora più convinzione, farlo per i propri figli, “i propri prìncipi”. Perché è tutto ciò che conta, lì dove tutto è sempre uguale. L’unico futuro possibile, quando ritorni in prigione, con i figli da crescere senza madre.
Ma potrai loro raccontare una leggenda, quella di Chitara, la gasolineira.
Che con il petrolio ha sconfitto il sangue.
È storia.