Diretto da Pupi Avati, questo film rappresenta un punto di svolta nel panorama cinematografico italiano degli anni '70, soprattutto nel genere horror. Un'opera che si inserisce in un contesto di sperimentazione e contaminazione, facendo uso di elementi propri del cinema gotico e dell'horror psicologico, con una notevole influenza sulla successiva evoluzione del genere in Italia. Il film si distingue per la sua atmosfera sospesa, inquietante, e per una narrazione che si sviluppa tra il mistero e il sovrannaturale.
Il film si sviluppa attorno a un pittore, interpretato da Lino Capolicchio, che viene incaricato di restaurare un affresco in una villa isolata in una cittadina dell'Emilia Romagna. La casa, che inizialmente sembra tranquilla e affascinante, si rivela ben presto essere un luogo carico di segreti e presenze inquietanti. Mentre il pittore si immerge nel restauro, comincia a scoprire dettagli misteriosi che suggeriscono la presenza di forze oscure. Le finestre della casa, in particolare, sembrano giocare un ruolo centrale nella storia, quasi come se avessero una vita propria, in grado di osservare e di comunicare attraverso il loro riflesso.
Il film si costruisce lentamente, giocando su una tensione crescente che culmina in eventi sovrannaturali che sconvolgono la serenità apparente del luogo. Avati dosa sapientemente il ritmo, alternando momenti di apparente tranquillità a situazioni di crescente angoscia, mantenendo lo spettatore sempre sull'orlo del dubbio: ciò che è reale e ciò che è frutto della mente del protagonista è continuamente sfumato, creando un'atmosfera di incertezza e disorientamento.
Pupi Avati, al suo secondo film da regista, dimostra una grande maestria nell'utilizzare gli spazi e nel costruire l'atmosfera. La casa, con le sue stanze buie e le finestre che sembrano osservarci, diventa un personaggio a sé stante, un simbolo della psiche tormentata del protagonista e della tensione che pervade tutta la storia. L'isolamento della villa, in una campagna desolata, amplifica il senso di solitudine e claustrofobia.
La regia di Avati è essenziale ma estremamente efficace. Con pochi elementi, riesce a creare una suggestiva sensazione di pericolo imminente. Il paesaggio rurale e la cura nei dettagli architettonici, come le finestre stesse, danno vita a un mondo che sembra essere sospeso tra il passato e il presente, tra la realtà e l'incubo. Avati riesce a non cadere nei cliché del cinema horror dell'epoca, preferendo un approccio più sottile, psicologico, che fa leva sulla paura dell'ignoto e sulla percezione distorta della realta`.
Lino Capolicchio, nel ruolo del pittore, è il cuore pulsante della narrazione. La sua interpretazione è misurata e sfaccettata, mostrando un uomo che, di fronte all'ignoto e al misterioso, reagisce con una crescente ansia e paranoia. È un protagonista vulnerabile, che diventa quasi un veicolo per il disturbo e l'inquietudine che pervadono la casa. Il cast di supporto, seppur meno prominente, offre interpretazioni solide che aiutano a costruire il senso di mistero e di sfiducia verso ciò che sembra apparentemente normale.
Il film esplora diversi temi chiave, come il confronto con il passato, la percezione della realtà e la fragilità della mente umana. Il protagonista, nel suo confronto con il mistero della villa, si trova ad affrontare la dimensione del soprannaturale, ma anche la sua psiche, che comincia a vacillare. Le finestre, simbolo della visione e della separazione tra dentro e fuori, diventano metafora di una distorsione della realtà: l'orrore non proviene tanto da ciò che accade fisicamente nella casa, ma da ciò che il protagonista percepisce e teme.
Il film si interroga anche sul concetto di morte e di morte imminente, attraverso una serie di riferimenti visivi e simbolici. La villa stessa è una sorta di mausoleo, e le figure che popolano la sua storia sembrano essere vincolate a un destino tragico e misterioso, come se il luogo fosse intriso di spiriti inquieti.
La pellicola non si fa incasellare facilmente in un unico genere. Sebbene sia un film horror, le sue influenze sono molteplici: c'è il gotico, con le sue atmosfere cupe e misteriose, ma anche il dramma psicologico, che esplora i meandri della mente del protagonista. Il risultato è un'opera che, pur mantenendo il contesto horror, si distingue per la sua profondità emotiva e psicologica.
In Italia, "La casa dalle finestre che ridono" è spesso ricordato come un esempio di cinema horror d'autore. La sua capacità di evocare l'orrore psicologico, anziché affidarsi a spaventosi effetti speciali o scene gore, lo rende un film di culto. Avati riesce a mescolare con intelligenza la tradizione del cinema horror italiano con una visione personale e intimista, rendendo il film un'esperienza unica per gli appassionati del genere.
"La casa dalle finestre che ridono" è una gemma del cinema italiano che ha lasciato un segno duraturo nel panorama dell'horror europeo. Grazie alla regia di Pupi Avati, a una sceneggiatura ricca di sfumature e a un'atmosfera densa di mistero, il film continua a essere un punto di riferimento per gli appassionati del genere. Un'opera che mescola il gotico e il soprannaturale con una riflessione sulla psiche umana, in grado di lasciare un'impressione duratura, molto più che per i suoi spaventi, per la sua capacità di disorientare e inquietare.