Ormai non so veramente più che scrivere dei film visti in sala quest'anno.
E del cinema italiano.
L'Arminuta è l'ennesimo gioiello di una serie ormai lunga che minaccia ancora di non finire (se penso alle prossime visioni di Sorrentino e Atlantide).
E se è vero che, a parte con Freaks Out, molto spesso il cinema italiano non "rischia" il genere affidandosi al realismo (di cui siamo maestri), è anche vero che sempre di più, pur in questa cornice realistica, assistiamo ad opere e regie "superiori", di quelle che non si limitano a fare il compitino mostrando/raccontando cose (intendiamoci, ci sono film meravigliosi che fanno solo questo eh) ma che sanno esaltare la fotografia, muovere la macchina da presa, avere piccoli momenti di realismo magico che rendono questo cinema neo-neorealista qualcosa di più, almeno negli intenti.
Se in "A Chiara" Carpignano riusciva semplicemente con dei piani sequenza dall'atmosfera ipnotica a squarciare il senso di realtà percepita, se ne "Il Buco" Frammartino riusciva semplicemente inquadrando un foglio bruciato cadente o facendo la panoramica di una mappa a darci sensazioni quasi "magiche", anche in questo bellissimo L'Arminuta più volte abbiamo la sensazione di andare in una dimensione-altra senza che il significante esca minimamente dal realismo.
Una sequenza come quella della giostra (da infarto) è qualcosa di più di quello che è nella sola immagine mostrata, è un mondo, è un mood, è un sogno, è un simbolo. 
L'arminuta (quella bambina di cui mai sapremo il nome proprio ma solo il ruolo sociale e drammaturgico, quello della "ritornata") volteggia nell'aria, felice, provando ad afferrare il premio.
In quel momento non esiste più il suo passato dorato nè il suo presente dolente, in quel momento c'è una bambina di 13 anni che volteggia coll'aria in faccia, girando in tondo nel buio e nelle luci elettriche, in quel momento quella bimba, e noi con lei, siamo completamente fuori dal racconto, siamo sradicati dalla trama, siamo buttati fuori dalla realtà.
Giuseppe Bonito, l'eccellente regista, non abuserà di queste scene "sospese", non sorrentineggerà (attenzione, adoro Sorrentino ma quello è un cinema diverso, in cui la realtà non è mai perfettamente realistica) ma riuscirà ad infilarle, come un contrappunto musicale, in uno spartito secco, durissimo, spietato, fatto di poche note.
Siamo in Abruzzo, non so nemmeno quando (anni 60/70? presumo) e una bambina dai capelli rossi e dai vestiti pastello torna in un paese in cui tutti sono vestiti grigi e marroncini e hanno capelli neri.


Sembra Alice che arriva in un paese delle non meraviglie, un paese che è paesino dell'entroterra, pieno di ruvidezza, pieno di comportamenti millenari, pieno di pregiudizi, pieno di tante cose che belle non sono.
In realtà quella bimba non è un'aliena ma è proprio figlia di quei luoghi, di quella cultura, persino di quella famiglia alla quale è adesso tornata. Eppure, come fosse un alieno, sembra arrivare da una Marte di spiagge, gelati, colori colorati e non smorti, tovaglie ricamate, luce accecante e mura bianche.
Dieci minuti, non di più, e l'empatia per questa ragazzina rossa malpelo è massima, che ne senti il disagio, la difficoltà, il fuori posto, l'apnea.
Facce mai viste prima, una casa piccola e sporca, mura muffose, una stanza comune dove dormire e dove non poter difendere quella femminilità in nuce che ogni bimba di 13 dovrebbe proteggere.
Una cena con un pentolone in mezzo, prima mangia il padre padrone e poi possono farlo gli altri, una sorellina di 9 anni che culla un bambino appena nato, un pollo da eviscerare, una disperazione da mascherare.
E le polpette magari saranno anche buonissime sì, ma non c'è la serenità di assaggiarle.
Bonito (e sicuramente prima di lui il libro da cui il film è tratto) ci racconteranno con commovente esattezza un'epoca, una cultura, un degrado, una forma mentis.
Il padre che picchia i figli senza farsi problemi, la famosa cintura che tutti noi che abbiamo passato i 40 ricordano, anche chi, alla fine, come me, poi non ne ha mai vista una fuori da un paio di pantaloni.
La famiglia raccontata ne L'Arminuta è la famiglia tipica di una certa epoca e di un certo ambiente, c'è poco da fare.
Bonito lavora anche nei dettagli come quando quel padre si alza da tavola (le scene più significativa sono proprio a tavola ma perchè quello era la tavola a quei tempi, il teatro e la manifestazione di un'intera cultura), dicevo come quando quel padre si alza da tavola e allora tutti si affrettano a ritirare i piatti ancora pieni di cibo.
Impressionante.
E in questa scena, come in tante tante altre, viene fuori, giganteggiando, la figura della piccola Adriana (interpretata da una impressionante Carlotta De Leonardis, come impressionante è anche la protagonista Sofia Fiore), una bimba che di bimba non ha ormai più niente, manco il viso quasi, che pare il viso maturo di chi ha saltato almeno due fasi dell'esistenza, infanzia ed adolescenza.
Adriana che culla il bimbo, Adriana che a tavola gestisce le cose, Adriana che ha il carisma di fare e decidere, Adriana che non solo imita sua madre ma in più di una cosa le è ormai oltre.
Eppure è sempre una bambina di 9 anni, una bimba che davanti al mare può restare pietrificata perchè ha paura che il fratellone la faccia affogare, una bimba che sa riconoscere che è arrivata un'altra bimba poco più grande di lei e allora a quella si aggrappa, senza retorica, senza bisogno apparente, senza lacrime, ma con quella sorta di "riconoscimento" atavico.
E che scena, mamma mia, quando Adriana se ne frega di tutto il paese e se ne va per i vicoli innevati urlando come una matta per far tornare L'Arminuta, far tornare la ritornata.
Che dignità, che forza, che disperazione celata.


Ma in questo film di piccole grandi donne (dove l'uomo, ancora una volta, ne esce distrutto) c'è anche la figura della stessa arminuta (che non abbia nome è emblematico, come a spersonalizzarla) a spiccare, una ragazzina che alla fine se ne frega di tutto, se ne frega degli agi, dei soldi, dei sogni, se ne frega di tutto ricercando disperatamente di capire solo una cosa, se la sua mamma, o comunque colei che l'ha cresciuta, l'ami davvero.
Anche lei lo fa con dignità, rabbia e senza versare lacrime, lo fa in un modo adulto, maturo.
Nella sua testa ci sono flash back d'amore, ci sono 12 anni perfetti, e pensare che tutto era finzione o dovere non la fa vivere.
Più volte lo spettatore si ritroverà a giudicare gli adulti di questo film, il padre biologico, la madre biologica, la seconda madre, trovandoli tutti pessimi, tutti sbagliati.
Non che non sia così ma in realtà, e più il film va avanti più lo capiamo, siamo davanti ad un film dove non ci sono vincitori, tutti vittime, un film di donne piegate da decisioni maschili o sociali e di uomini che devono dimostrarsi tali in modi terribili,solo perchè non hanno proprio gli strumenti per fare diversamente.
Quel padre che picchia è lo stesso che urla a Dio del perchè non s'è preso lui al suo posto, quella madre che ha "spedito" sua figlia alla vecchia famiglia è una donna succube di tutto e di un nuovo marito, lui sì "perfettamente terribile".
Ah, quanto è facile giudicare, quanto è facile dire che io, tu, noi, voi siamo migliori di essi.
Eppure dovremmo crescere in quei luoghi, in mezzo a quegli uomini, in mezzo a quella cultura per capire quanto era difficile comportarsi in maniera diversa.
Che bella la sequenza dove Adriana, manco fosse sua madre, va in classe a vedere se la sorella è a suo agio, che bella quella terribile dell'incidente, che bella quella delle due tazzine simbolo di qualcuno che è venuto là, che bella Adriana di spalle al mare, un pò per paura di quello un pò per gelosia di loro due, che bella la rabbia dell'arminuta nell'urlare che non è un pacco postale.
Forse il film ha una parte centrale più debole, sicuramente più debole di una prima mezz'ora perfetta e di un finali 20 minuti ancor più perfetti.
Ma è un film piccolo, che nulla vuole più di quel che è, che nulla aspira più di raccontare e farlo con l'esattezza, la durezza ma anche la grazia migliori possibili.
Ma poi si va a casa della seconda madre, quella casa grande e borghese dove un uomo che sembra uscito da una rivista di moda accoglie splendidamente le due bimbe.
Dieci minuti straordinari, in climax, che raccontano tutto.
Una scena magistrale che ha il suo apice in quell'uomo che finalmente si alza per andare da suo figlio disperato ma no, torna con l'acqua minerale.
E Adriana - e io lo sapevo, l'ho preannunciato, perchè tutto il suo personaggio doveva portare a quella scena -  e Adriana che si alza al posto suo, che prende il bimbo, che lo porta alla madre, che se ne frega delle urla di quel mezzo uomo, che con calma spiega che il bimbo si era incastrato.


E l'arminuta che capisce che forse in quella famiglia di amore non ce n'è, che capisce il dramma di sua madre ma che sa anche che lei, di sicuro, non può aiutarla.
E allora l'arminuta, la ritornata, ritornerà ancora indietro, stavolta volendolo fare.
Forse in quella famiglia disastrata potrà ancora scoprire una carezza reale, potrà far maturare persone e affetti.
Di sicuro ha vicino a sè una donna straordinaria.
Quella donna ha 9 anni.
E non ha più paura di entrare nel mare.