Joe (Joaquin Phoenix) è un veterano di guerra. Ossessionato dai ricordi della guerra e da un’infanzia tormentata da un padre violento, Joe vive con l’anziana madre e per lavoro salva ragazzine dal giro della prostituzione minorile. Sino a quando il senatore Williams (Alessandro Nivola) non gli darà l’incarico di liberare la figlia Nina (Ekaterina Samsonov). Joe si ritroverà suo malgrado in una spirale di violenza ed orrore.
 
Come si gira oggi un film che mandi in solluchero i critici e faccia gridare al capolavoro? La risposta è You were never really here di Lynne Ramsay, già all’opera con il bellissimo …e ora parliamo di Kevin (2011).
La sua nuova opera è un bignami del perfetto film “alternativo” ed indipendente. Una fotografia notturna e brumosa che ricorda Taxi driver, un uso caratterizzante dei colori e dei contrasti tra essi, che alterna scene quasi monocromatiche (la stanza dominata dal rosa in cui viene fatta prostituire Nina), ad altre dominate da luci fredde (il ritrovamento dei cadaveri di alcune donne in uno dei tanti flash della mente di Joe).
Tutto è rigidamente calcolato al millimetro in un autocompiacimento esasperato in cui la Ramsay è continuamente ossessionata dal voler dimostrare quanto sia brava.
Il tutto è amplificato d una narrazione continuamente interrotta dai ricordi di Joe che squarciano la storia. L’intento sarebbe quello di calare completamente lo spettatore all’interno della psiche del protagonista devastata da un passato che lo ossessiona. Il risultato è che non si capisce niente.
Per carità, alle volte il gioco funziona.
È il caso della scena in cui viene liberata per la prima volta Nina, ripresa da alcune telecamere a circuito chiuso, in bianco e nero, senza audio mentre la violenza rimane fuori campo.
Non mancano neanche i momenti che vogliono essere poetici e metaforici a tutti i costi a cominciare dall’immancabile sequenza sottacqua, per concludere il tutto con una inquadratura fissa che vorrebbe mettere in discussione tutto ciò che abbiamo visto. Roba che abbiamo già visto, ad esempio, usata con ben altra potenza nei film di Lanthimos.
Il risultato finale è un’incolmabile distanza tra lo spettatore e la materia narrata.
You were never really here è onanismo d’autore, rinchiuso in sé stesso, tanto proteso allo stupore estetico quanto asetticamente programmatico e quindi inevitabilmente vuoto.
Ed anche la recitazione tutta sussurri e mugugni di Phoenix alla fine risulta noiosa.
Vedendo l’ultima opera della Ramsay ci è tornato in mente Blue ruin, splendida pellicola di Jeremy Saulnier, ovviamente inedita da noi.
Da una parte c’è l’ansia di chi vuole dimostrare al mondo e ai critici quanto sia brava, e si autocompiace di sé stessa.
Dall’altra solido cinema di genere girato magistralmente da chi non ha bisogno di dimostrare nulla perché il cinema c’è l’ha nel sangue.