35 film, esclusi cortometraggi, episodi di film collettivi, show e serie televisive; 6 titoli solo quest’anno. Come il suo compatriota Takashi Miike, anche il giapponese Sion Sono è un terrorista del cinema che ha attraversato ogni genere cinematografico immaginabile realizzando pellicole a getto continuo.
Mancava all’appello la fantascienza ed il “film d’autore” e giustamente Sono ha deciso di fonderli insieme.
All’inizio The whispering star sembra uno scherzo ben riuscito.
Schermo nero con la scritta Lunedì. Un rubinetto che gocciola. Martedì. Lo stesso rubinetto che gocciola. Mercoledì. Il rubinetto viene aperto. Giovedì. Una teiera viene messa sul fuoco. E così via. Gesti minimi dilatati all’inverosimile.
Lentamente scopriamo che quella che sembrava una normale cucina in realtà è l’interno di un’astronave che esteriormente riproduce fedelmente la tipica casa giapponese. Palesemente si tratta di un modellino che viaggia con dietro un fondale dipinto. Insomma sembrerebbe una via di mezzo tra Dark star (l’esrodio semi amatoriale di John Carpenter) ed i film di fantascienza degli anni ’50.
All’interno di questo strambo veicolo spaziale si muove l’androide Yoko Suzuki alias Machine ID 722 (Megumi Kagurazaka) che ha come unica compagnia il suo computer di bordo tipo Hal 9000 in 2001 Odissea nello spazio.
Il suo compito è viaggiare tra i pianeti consegnando pacchi ai pochi umani sopravvissuti (appena il 20% della popolazione).
Purtroppo quello che inizialmente pensavamo fosse uno scherzo rappresenta la struttura stessa del film. Per 100 interminabili minuti in The whispering star non succede assolutamente nulla, i dialoghi sono ridotti al minimo, ogni gesto sembra durare ore ed il tutto è in rigoroso bianco e nero.
Yoko passa le sue giornate lavando il pavimento, ascoltando i nastri registrati da lei stessa, osservando le falene intrappolate nella luce sul soffitto ed ogni volta sembra che le singole sequenze durino ore.
All’improvviso apre i pacchi e scopre oggetti banali, un mozzicone di sigaretta, una tavolozza con colori e pennelli, una foto, una matita.
Ogni tanto atterra su di un pianete. Ed i pianeti altro non sono che località quali Tomioka, Minami Soma e Namie, tutte della regione di Fukushima.
Yoko si muove, sempre con una lentezza devastante, tra case sventrate, in campi dove giacciono le navi portate dal maremoto.
Trascorrono ore con lei che cammina, lei che aspetta immobile l’arrivo dei suoi clienti con i quali scambia pochissime battute.
Gli umani a loro volta sono derelitti solitari. Un uomo che cammina con una lattina incastrata negli stivali, una donna che vende sigarette su di un banchetto impolverato e decadente in mezzo alla sabbia, una coppia che aspetta che qualcuno entri nel loro negozio devastato.
Ora è chiaro che l’intento del regista era quello di costruire una grande metafora sull’autodistruzione umana. Obiettivo esplicitato sin dall’inizio da una voce fuori campo che ci avverte che gli errori degli uomini li hanno portati alla loro quasi completa estinzione.
Da qui la scelta di mettere nei pacchi cose insignificanti a sottolineare la vacuità della vita.
Lo stesso dicasi per quanto riguarda la scelta dei luoghi dove è girato il film, dopo The land of hope, Siono ancora una volta ritorna sui luoghi della tragedia di Fukushima per riflettere sull’irresponsabilità dell’uomo.
Condisce il tutto con un film che cerca disperatamente di unire il minimalismo più estremo al teatro dell’assurdo di Beckett provando a ricreare la magia di un film quale Stalker di Andrej Tarkovskij, ovvero creare atmosfere magiche e suggestive partendo da luoghi comuni e banali.
Alle volte ha anche dei momenti di puro genio come nel caso dell’ultimo pianeta visitato da Yoko, un lungo corridoio, circondato dai paraventi che fungono da pareti nelle case giapponesi, dietro i quali si vedono le ombra cinesi degli esseri umani mentre compiono le azioni di tutti i giorni.
Il risultato complessivo però è un film che sembra non finire mai e che mette a dura prova la resistenza dello spettatore.
Un autentico mattone che spesso fa inevitabilmente calare la palpebra. Ma niente paura, una volta riaperti gli occhi comunque non sarà successo assolutamente nulla…che noia!