Forse bisognerebbe avvisare lo spettatore che vada a vedere Memoria o forse no.
In fondo il cinema di Apichatpong Weerasethaku da noi è, in tutti i sensi, un oggetto alieno.
Innanzitutto perché invisibile visto che solo Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti era riuscito ad approdare nelle nostre sale.
Per il resto il nulla ed anche questo Memoria, presente in sole 8 sale, rischia di fare la stessa fine.
Resta la speranza che la presenza dietro la sua distribuzione della piattaforma MUBI accenda una speranza per il futuro e che questo sia solo un primo timido tentativo di aprire uno spazio, speriamo sempre più grande, al cinema d’autore nelle nostre sale.
Da questo punto di vista non può che far piacere la decisione di distribuire il film solo in lingua originale, finalmente qualcuno si è reso conto delle esigenze del pubblico cinefilo che sarà pure (forse) una minoranza ma che, parliamoci chiaro, è l’unico che ancora va al cinema e lo fa regolarmente,
Proprio per questo l’avviso del quale parlavamo all’inizio risulterebbe forse superfluo.
Si presuppone che chi si avvicini a Memoria sappia quale sia l’idea di cinema di Weerasethaku, magari anche grazie alle visioni illegali e clandestine cui è relegato da noi il cinema di qualità.
Impossibile, ad esempio, dire di cosa parli il nuovo film del regista thailandese da sempre fedele ad uno stile che, apparentemente, sembrerebbe anti narrativo per eccellenza.
Memoria, che poggia interamente sulle spalle di una sempre ultraterrena e straordinaria Tilda Swinton (non a caso anche produttrice esecutiva), procede per sequenze apparentemente staccate l’una dall’altra, fatte spesso di lunghissime inquadrature con la macchina fissa.
Memoria assomiglia ad un fiume in piena che porta con sé detriti di possibili storie, nessuna delle quali sembrerebbe avere un suo sviluppo vero e proprio.
Weerasethaku si perde dietro a bozzetti apparentemente slegati e laddove costruisce un minimo di racconto lo fa in maniera sconnessa.
Nessuna delle storie, che pure ci sono, procede in maniera lineare, si preferisce invece indagare singoli momenti che, ad un primo sguardo, non sembrerebbero avere legami tra di loro.
L’invito chiaro rivolto allo spettatore è quello di lasciar perdere la ricerca di un senso, di un filo logico e di lasciarsi andare alle sensazioni.
Le inquadrature diventano così quadri immobili nei quali perdersi, nei quali sprofondare accettando la sospensione temporale ed abbracciando una dimensione che ha a che fare più con le zone del sogno e dell’inconscio.
D’altronde, forse, proprio di questo parla Memoria.
Jessica (Tilda Swinton) è a Bogotà per far visita alla sorella malata. Improvvisamente una notte viene svegliata da un grosso boato, un rumore che descriverà minuziosamente in una delle sequenze forse più belle del film.
Da quel momento in poi quel suono che solo lei può udire comincia a perseguitarla.
Cercherà aiuto in un tecnico del suono ed in una antropologa sino ad incontrare un uomo misterioso che ricorda tutto e che quando dorme non sogna mai.
Memoria è un viaggio nell’inconscio di Jessica, tra cene surreali, improvvise apparizioni di cani, sessioni jazz dinnanzi alle quali fermarsi ad ascoltare.
E poi la Colombia e la sua foresta, Weerasethaku sembra quasi voler riprendere solo ed esclusivamente ciò che gli piace, sia appunto un gruppo che suona un pezzo jazz o la maestosità della giungla.
Forse Memoria è un sogno ad occhi aperti, forse il suo senso (se c’è) è tutto racchiuso nel dialogo tra Jessica ed Hernán (Elkin Díaz), in quell’incontro in cui lei diviene un’antenna di suoni, memorie, ricordi, forse suoi, forse dell’uomo, forse addirittura appartenenti ad un'altra dimensione come rivela la sorpresa più eclatante del film che per un momento ci fa balenare l’dea che Memoria sia, in fondo, un film di genere (non diremo quale) e forse in questo caso uno dei migliori e più affascinanti degli ultimi anni.
Cinema per pochi direbbe qualcuno. Sicuramente beati aggiungiamo noi.