House of Gucci, in realtà, potrebbe tranquillamente chiamarsi Patrizia Reggiani.
E’ lei, infatti, il centro del film, magnificamente interpretata da una Lady Gaga che le dà, letteralmente, corpo.
Esemplare, da questo punto di vista, la sua passeggiata tra gli autisti di camion dell’azienda paterna, in uno spiazzo polveroso ed una fotografia che fa effetto vintage e che sprofonda la scena in una atemporalità che è il segno distintivo del film e la cifra stilistica dell’intera operazione.
Ridley Scott, infatti, se ne frega allegramente di qualsiasi adesione alla realtà, basti pensare al commento musicale, fatto spesso di canzoni che nulla hanno a che vedere con l’epoca in cui è ambientata la vicenda e che più che altro servono per quei momenti del film che sono altrettanti piccoli perfetti videoclip.
Ad un certo punto, anzi, sembra rimanere prigioniero degli anni ’80, anche quando questi sono orami passati e a guidare la maison è arrivato Tom Ford, un po’ boro texano, un po’ giovane sfrontato.
Piuttosto sono le scelte fotografiche e le scenografie a definire ambienti e psicologie.
Così quando Patrizia e Maurizio Gucci (Adam Driver) arrivano a New York ad accogliergli c’è un cielo grigio plumbeo che opprime la città è che preannuncia ciò che verrà.
Su tutto, come detto, troneggia Patrizia Reggiani.
Il resto è contorno servito da un cast all star.
Jared Leto (Paolo Gucci) in perenne overacting o Al Pacino (Aldo Gucci) nella parte di sé stesso sino ad un abbraccio padre/figlio in cui molta critica ha visto una citazione da Il Padrino – Parte II.
Al di là della citazione, quello che è certo è che il cinema è ben presente altrove.
E’ il caso dei lineamenti spigolosi di un Jeremy Irons ai limiti dell’anoressia nella parte di Rodolfo Gucci, capo della dinastia insieme al fratello Aldo e padre di Maurizio.
Come un novello Howard Hughes il nostro vive recluso, sepolto vivo, nella sua villa nella quale non entra mai la luce del sole, senza avere più nessun contatto fisico con chicchessia.
Il suo sembra quasi un rifiuto del mondo esterno e delle dinamiche siano esse familiari e dinastiche o capitalistiche.
Il suo rifugio/eremo è una sorta di caverna di Platone dove il nostro vive cibandosi di ricordi sotto forma di ombre cinematografiche, vecchi film proiettati in una stanza e pellicola appesa ovunque a ricordo dei bei giorni passati quando il nostro tentò di diventare un divo del grande schermo.
Sembra quasi una rivendicazione autoriale, la rivincita del cinema e dell’immaginazione contro la volgarità del reale.
Per completare il quadro rimangono da citare almeno due comprimari della vicenda, non fosse altro che per la bravura degli attori; Jack Huston nella parte di Domenico De Sole e soprattutto una rediviva Salma Hayek che interpreta, magnificamente, Giuseppina Auriemma.
Poco più di un contorno a quello che è il vero centro di tutto “la vedova nera”, come la ribattezzò la nostra stampa.
House of Gucci potrebbe rappresentare, per il critico che ne avesse voglia, lo spunto di partenza per un’analisi di quella parte della carriera di Ridley Scott con al centro personaggi femminili, che siano il Tenente Ellen Ripley di Alien, Thelma & Louise o per Soldato Jane.
Apparentemente Patrizia Reggiani è presentata come un’arrampicatrice sociale interessata solo al patrimonio Gucci, o almeno questa è l’idea che si fa di lei Rodolfo.
Di segno opposto la reazione di Aldo che vede in Patrizia la donna che, forse, può “svegliare” il nipote e dunque punta da subito a portarla dalla sua parte, anche in un’ottica di lotta interna per il controllo del marchio.
In realtà il personaggio costruito da Ridley Scott è molto più complesso.
Certo House of Gucci ha l’aspetto esteriore di una soap opera stile Dallas o Dynasty ma quella è solo la superficie luccicante ed abbagliante in cui è maestro il regista.
Sotto si agita un mondo capitalista e dinastico fatto di intrighi, frodi fiscali, lussi ed eccessi a nascondere la sostanziale decadenza di una casa di moda oramai prigioniera del passato ed infine l’avidità dei nuovi ricchi che scaleranno l’azienda.
Tutto è finzione in questo mondo, persino le origini nobili sventolate dai Gucci frutto di invenzione.
Patrizia Reggiani è un’estranea, incolta e guardata dall’alto in basso che però, di fatto creerà Maurizio Gucci trasformando il marito da futuro avvocato apparentemente disinteressato agli affari di famiglia; della quale si gode i vantaggi e gli agi senza sporcarsi le mani, a squalo che non si fermerà di fronte a nulla e pur di avere tutto non si farà scrupolo di rovinare e mandare in galera i suoi stessi parenti.
Ridley Scott parteggia chiaramente per la sua eroina la quale, nella lettura data dal regista, agisce in realtà per amore più che per interesse personale.
Ovvio non che i soldi le facciano schifo ma Patrizia vuole solo che suo marito si prenda tutto ciò che gli spetta.
Peccato che quando Maurizio diventerà il nuovo padrone non si farà scrupolo ad umiliarla prima e a scaricarla poi.
Anche l’omicidio quindi diventa una vendetta d’amore da parte di una donna distrutta e ferita nei sentimenti.
Ma questa è una storia che al regista non interessa affatto.