È la prima volta che Oz Perkins si trova a fare i conti con una sceneggiatura non totalmente sua, visto che stavolta a firmarla è anche Rob Hayes.
Il risultato finale, diciamolo, è il più grande limite del terzo lavoro di Perkins.
La storia, ispirata alla fiaba dei Fratelli Grimm, finisce per essere un guazzabuglio indigesto.
Hayes e Perkins vorrebbero iscriversi in quel filone horror dai connotati “folk”, aperto da The witch (2015) di Robert Eggers, mescolandola con una lettura femminista di quart’ordine il tutto condito da dialoghi talmente pomposi da risultare ridicoli.
 
Gretel (Sophia Lillis) ed il suo fratellino Hansel (Samuel Leakey), orfani di padre, sono stati appena cacciati di casa dalla madre, oramai impazzita a causa della fame e della povertà.
Lungo il cammino incontrano un’abitazione, al cui interno troneggia una tavola ricolma di cibo, nella quale troveranno rifugio, ospiti di un’anziana signora (Alice Krige).
Con in testa la macabra favola della ragazzina dal cappellino rosa, che forse potrebbe essere l’anziana donna, Gretel è preda di incubi e comincia dubitare di tanta gentilezza ed abbondanza.
Inizia così per la ragazza un percorso che, nelle intenzioni dei due sceneggiatori, vorrebbe essere di emancipazione e scoperta di sé.
Già in precedenza Gretel aveva mostrato segni di insofferenza, sia nelle sue critiche ad un sistema che vuole che il raccolto vada in dono al vescovo, sia nel rifiuto di rinchiudersi in convento.
Parallelamente la ragazza nasconde un dono speciale.
L’anziana donna che li ospita, per contro, sembra quasi l’incarnazione di questa voglia di libertà della ragazza.
Vive da sola nei boschi, conosce i poteri delle erbe e tutti i suoi discorsi sono altrettanti inviti nei confronti di Gretel affinché si liberi dei legami con il mondo, primo tra tutti il fratello, e liberi il suo potenziale inespresso divenendo padrona del proprio destino.
Onestamente le tirate sulla coscienza di sé, con i loro richiami al #meetoo, immerse in questo scenario da fiaba gotica dalle atmosfere medievali, appaiono totalmente fuori contesto.
A questo tentativo di lettura in chiave femminista della fiaba, evidente sin dal rozzo rovesciamento dei nomi dei protagonisti nel titolo, si aggiungono dialoghi in linea di massima di imbarazzante retorica ed il rischio continuo che il film scivoli in un fumettone fantasy a base di superpoteri.
Dinnanzi ad un materiale di partenza simile, per nostra fortuna, Oz Perkins sceglie la via più impervia.
Costruisce un film psichedelico, con cambi di formato, uso di lenti deformanti, viaggi a base di funghetti allucinogeni ed ombre furtive nel buio della foresta.
Il regista decide di dare sfogo a tutta la sua potenza visionaria.
Ambienta il suo film in uno scenario che gronda miseria, sporcizia e povertà, fa muovere i propri personaggi in ambienti ora dominati dalla fioca luce delle candele, bui e tetri, ora accesi da violenti contrasti cromatici.
Ma soprattutto libera tutta la sua fantasia nei sogni di Gretel.
Il film diventa così un’avventura degna di Alice di Lewis Carroll alla scoperta dei mille segreti della casa, tra scenografie che sembrano uscite fuori da un mix tra il miglior surrealismo ed atmosfere degne di David Lynch.
Minuscole porticine diventano il luogo di passaggio, proprio come per Alice, verso mondi fantastici dominati da ampie stanze dalle pareti bianche abitate da cadaveri, fantasmi, streghe gotiche che paiono uscite da un video metal, pezzi di corpi che diventano cibo.
Gretel & Hansel è un vero e proprio schiaffo in faccia al pubblico dei multisala, un viaggio onirico in una foresta marcia e putrescente, una continua invenzione visiva magari pure autoreferenziale e kitsch , il tutto tra atmosfere sospese da fiaba dark, tempi rallentati e continue suggestioni visive.
Alla fine siamo dinanzi ad un film che rischia di scontentare tutti.
Da parte nostra non possiamo che dire, avanti così Oz, sei uno di noi.