Fuocoammare (Gianfranco Rosi)
 
Lampedusa e la tragedia dei migranti. Sarebbe stato facile per Gianfranco Rosi colpire basso allo stomaco dello spettatore puntando tutto sui sentimenti e sulla retorica (nel senso buono del termine).
Intendiamoci, non che le immagini “forti” non manchino, soprattutto nel finale, quando ci viene mostrato il recupero di alcuni migranti alla deriva su una carretta.
Corpi allo stremo completamente disidratati in fin di vita che tremano, uomini che piangono lacrime macchiate di sangue, persone che si abbracciano e soprattutto quei volti che si imprimono per sempre nella nostra memoria e che raccontano da soli tutta la portata di una tragedia immane e poi i cadaveri di chi non ce l’ha fatta ammassati un una stiva e che inevitabilmente ricordano quelli degli ebrei nelle fosse comuni dei campi di concentramento nazista o quelli delle vittime del conflitto jugoslavo.
Tuttavia c’è molto altro in Fuocoammare che innanzitutto è il racconto di un’isola, Lampedusa, che nel film diviene al tempo stesso non luogo per eccellenza, ripreso come fosse fuori dal tempo e dallo spazio, alienato ed alienante, scoglio in mezzo al mare che sembra disabitato e deserto, come in un film surrealista o di fantascienza, neanche ci fosse stata una catastrofe che ha lasciato dietro di sé brandelli dell’esistenza come la conosciamo oggi.
Quattro le storie principali che Rosi segue per raccontare il suo anno passato su questo lembo di terra.
Quelle di un pescatore di ricci e di un dj della radio locale che tiene insieme le storie di questa piccola comunità a forza di splendide canzoni tradizionali siciliane.
Poi quella di Pietro Bartolo, il medico che praticamente da solo si è fatto carico degli oltre 250mila sbarchi. Lo vediamo mentre fa un’ecografia ad una migrante celebrando il miracolo di una vita (anzi due, visto che la donna ha dei gemelli) che, nonostante tutto, è sopravvissuta a questo viaggio/odissea e soprattutto lo sentiamo rievocare le migliaia di autopsie compiute su uomini, donne e bambine. “I miei colleghi mi dicono, ti sarai abituato, ma come ci si può abituare?”. E non c’è altro da dire, le sue parole sono una pietra sulle discussioni infarcite di razzismo, sul fastidioso rumore di fondo di chi cavalca le peggiori paure senza mostrare un briciolo di umanità e di pietà.
Poi c’è Samuele Pucillo, il vero protagonista del film. Un bambino che narra a Bartolo dell’ansia che lo divora dentro senza sapere il perché.
Cresciuto su di un isola Samuele soffre il mal di mare, tira alla fionda ed ha un occhio pigro dovuto proprio a questa sua passione.
Sarebbe sin troppo facile vedere nella sua figura una metafora, l’ansia di trovarsi in un non luogo dimenticato da tutti e che ogni giorno vive una tragedia nel disinteresse generale, il suo occhio pigro come lo sguardo distratto di un’Europa distante che non sa e non vuole occuparsi di questi milioni di persone che in fuga da guerre, fame e dittature bussano ogni giorno alle nostre porte.
Tuttavia piuttosto che seguire questa strada a noi sembra che Rosi abbia cercato piuttosto di raccontare la normalità di Lampedusa contrapponendola alla tragedia dei migranti, mostrarcene l’altra faccia, quella quotidiana e persino a tratti banale.
Raccontarcene il passato attraverso i ricordi della nonna di Samuele, che rievoca i giorni della guerra; mostrarci il suo volto fatto di uomini di mare che hanno passato anch’essi gran parte della loro vita, altrove come i naufraghi che oggi arrivano sulle loro coste, così come il padre di Samuele, un’intera esistenza passata sulle grandi navi, esule e lontano da casa.
Per narrare questa realtà complessa ancora una volta Rosi ha scelto una strada meticcia a metà tra il documentario e la fiction, un percorso che però non convince del tutto e che ci fa dire che forse sarebbe ora che il regista decidesse definitivamente cosa fare da grande.
In Fuocoammare spesso è difficile capire cosa sia stato ripreso spontaneamente e cosa sia stato costruito ad hoc.
I due dialoghi di Samuele con la nonna ed il padre sembrano essere messi lì apposta, come se il regista li avesse fatti recitare ai propri protagonisti. Lo stesso dicasi per il migrante che rievoca il proprio viaggio con cadenze vicine al rap, una sequenza palesemente falsa.
Rosi non rinuncia mai a mettere in scena ciò che racconta, fa sentire la sua presenza operando scelte estetiche precise e puntuali.
Ne sono un esempio la scena in cui Samuele parla col padre il cui volto è perfettamente incorniciato in uno specchio o ancora di più l’immagine dei marinai accanto ai cadaveri dei migranti in cui è evidente la mano del regista nella disposizione spaziale dei personaggi.
Rosi ha talento e ne ha parecchio, ha un’idea forte di cinema ed una grande cura formale dell’immagine, questo è indubbio e sicuramente Fuocoammare è un film necessario per risvegliare le coscienze senza cadere nella retorica, con un racconto che spesso devia dal tema dei migranti con momenti delicati e persino divertenti.
Però ripetiamo perché il talento di Rosi esploda completamente è giunto il momento che il nostro faccia una scelta di campo precisa, perché il suo cinema che alterna il reale con il ricostruito, il vero col falso, continua a sembrarci molto più fragile di quanto potrebbe essere.
EMILIANO BAGLIO