I personaggi de Il capofamiglia non hanno nome. Quando la donna (Demyana Nassar) va per la prima volta alla polizia a denunciare la scomparsa del marito (Samy Bassiouny), non sa o non vuole dirne il nome; la volta successiva mostrerà una foto.
Non hanno un nome perché ad identificarli è il ruolo sociale che ricoprono; moglie, marito, figli.
Gli altri sono comprimari, anch’essi privi di qualsiasi identità.

Anche i luoghi dove vivono sono non luoghi; sembrano usciti fuori da un film di fantascienza post atomico.

Sono palazzi luridi e fetidi, dai muri grigi e scrostati che si reggono in piedi per miracolo.

Le strade sono luoghi sterrati che si snodano tra palazzi fatiscenti, fabbriche che esalano gas e discariche abitate da bambini che frugano la spazzatura e cani pulciosi e scheletrici.

Il capofamiglia descrive una realtà agghiacciante nella quale regnano una povertà spaventosa e la sporcizia è ovunque.

Non c’è architettura che non sia fetida e marcia, gli uomini sono come animali e vivono in mezzo alle bestie.

Lo studio del veterinario è un luogo lurido, pieno di melma, feci e sangue.

La stazione di polizia è uno stanzone polveroso dove si trascinano per terra mendicanti.

La casa dei protagonisti sono quattro stanze dai muri grigi e cadenti dove tutto è semplicemente lurido.

Omar El Zohairy, al suo esordio nel lungometraggio, da parte sua descrive questa realtà affidandosi quasi esclusivamente a sequenze in cui la macchina da presa è rigidamente ferma; in quasi tutte quelle realizzate all’interno dell’abitazione dei protagonisti essa è posta frontalmente rispetto alla scena; per il resto spesso si sofferma su dettagli; i piedi sporchi dell’uomo, il viso della donna, il denaro onnipresente ed onnipotente come fossimo in un film di Bresson; le prospettive scelte sono spesso oblique ed il più delle volte l’azione vera e propria si svolge fuori campo.

All’interno di tutto ciò, con una mossa tanto spiazzante quanto geniale, sin dal soggetto stesso del film, Omar El Zohairy immette elementi surreali ed un gelido umorismo.

Il capofamiglia del titolo, infatti, è un uomo che gestisce la moglie ed i tre figli con piglio autoritario e che ha il totale controllo del poco denaro che in gran parte spende in regali assurdi e kitsch come una piccola fontana con le luci colorate.

Durante i festeggiamenti per il compleanno di uno dei figli viene scelto per partecipare ad un gioco di magia nei quali verrà scambiato con un pollo; peccato che il trucco riesca a metà e che il capofamiglia in questione sparisca nel nulla. 

È solo l’inizio di una serie di disavventure che porteranno la donna, ritratta sempre con il capo chino ed uno sguardo mesto, a doversi confrontare con un mondo assurdo, una burocrazia kafkiana e parenti/amici il cui aiuto è tutt’altro che disinteressato.

Omar El Zohairy tra i registi che lo hanno influenzato cita Bresson, Tati e Kaurismaki.

Proprio da questi ultimi deriva quel senso dell’umorismo surreale e nerissimo che anima alcune sequenze del film oltre a meccanismi derivati proprio dallo stile di Tati.

Così realismo estremo ed assurdo coabitano rendendo se possibile ancora più incisivo lo spietato ritratto composto dal regista, un quadro della realtà egiziana ben lontano dai proclami di regime che, non a caso, non è piaciuto al potere e che invece, giustamente, sta facendo incetta di premi in giro per il mondo, dal premio della Settimana internazionale della critica a Cannes 2021 al Premio speciale della giuria al Festiva di Torino 2021.