In una torrida estate, nella periferia romana, si intrecciano le vicende di alcuni nuclei familiari.
 
Tutto il senso della seconda opera dei Fratelli D’Innocenzo sta nel titolo, sin dall’espediente narrativo: il ritrovamento nella spazzatura, da parte della voce narrante (Max Tortora), del diario di una bambina.
Dunque l’ottica attraverso la quale verranno narrate le varie vicende, è quello infantile.
Da qui il tono fiabesco ed onirico della pellicola.
Si tratta, in fondo, di una fiaba ma, come suggerisce appunto il titolo, priva del “e vissero felici e contenti” tipico di questo tipo di narrazione.
L’intento dei due registi è dunque chiaro sin dal nome scelto per il loro lungometraggio e consiste nel tentativo di immergerci nel racconto di alcune famiglie come tante, divorate dal male di vivere; il tutto però filtrato attraverso un occhio infantile che, alla fine, è l’unico vero motivo di interesse di questa pellicola.
Se non ci fossero i figli di queste famiglie disfunzionali, con le loro piccole avventure, i loro primi amori e turbamenti sessuali, ed anche la loro solitudine, Favolacce sarebbe ancora peggio di quel che già non è così.
Per quanto possa sembrare assurdo, visto che la pellicola ha vinto l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura, quello che sembra mancare è una scrittura vera e propria.
I Fratelli D’Innocenzo, in realtà, più che narrare delle storie, cercano di restituire al pubblico il senso di un disagio esistenziale i cui veri motivi sono lasciati all’intuizione dello spettatore.
Dunque, più che ciò che accade, quello che importa e che dovrebbe definire i personaggi, sono le loro azioni, la loro interazione con l’ambiente, le lunghe inquadrature fisse sui loro volti, isolati nello spazio, ad esplorare i demoni interiori che li tormentano.
Per un po’ il gioco regge pure ed i due registi si dimostrano abili nel far emergere i caratteri da alcuni piccoli particolari, come quel piede smaltato dentro delle orribili ciabatte con tanto di fiore finto.
Alla lunga però il film si presenta come una serie di scene completamente slegate l’una dall’altra con la sola eccezione del rapporto tra Amelio (Gabriel Montesi) ed il figlio Geremia (Justin Korovkin), l’unico che abbia un arco narrativo compiuto ed una sua evoluzione.
Per il resto c’è poco o nulla ed anche il tanto decantato Elio Germano si limita a riproporre il solito personaggio pieno di rancore e capace di improvvisi scatti d’ira già visto tante altre volte sullo schermo (l’esempio più eclatante è La nostra vita di Daniele Lucchetti).
A lungo andare, questa serie di scene che dovrebbero farci comprendere la psicologia dei protagonisti di questo ennesimo anonimo dramma ovviamente di periferia, hanno il solo effetto di sfiancare lo spettatore.
Non è che si può costruire un intero film su un’intenzione, ovvero esplorare il disagio esistenziale di alcune vite, se poi manca completamente qualsiasi struttura narrativa vera e propria, qualsiasi evoluzione psicologica dei caratteri, qualunque cosa che non sia una serie di scene una appresso all’altra che si reggono, per di più, su luoghi comuni sfruttati sino alla nausea dal nostro cinema italiano, oramai sempre più romanocentrico (purché si tratti, ovviamente, della periferia della capitale).
Così, quando finalmente si arriva al dunque, onestamente di quello che accade non ce ne importa più nulla.
Anche perché, dopo un’intera pellicola giocata a fare gli autori senza averne la statura, i nostri non sanno neanche fermarsi quando dovrebbero, ovvero sul primo piano intenso di Elio Germano, lasciando fuori campo la tragedia vera e propria e proseguono, inutilmente, una scena che era già compiuta.
Sul campo rimangono una serie di domande senza risposta, a partire dalle motivazioni che conducono al finale, in particolare per quanto riguarda uno dei protagonisti (impossibile dire di più).
Desiderio di vendetta nei confronti dell’ipocrisia della società circostante?
Per non parlare poi di ciò che accade, cosa abbia generato dei gesti così estremi rimane francamente incomprensibile.
Meno male che se accorgono gli stessi autori quando fanno dichiarare alla loro voce narrante che la storia alla quale abbiamo assistito è “inutile”.
Mai aggettivo fu più appropriato.
Non gli resta dunque che far ripartire tutto di nuovo.
Speriamo almeno che stavolta si prendano un fonico di presa diretta degno di questo nome.
 
EMILIANO BAGLIO