È solo la fine del mondo
Louis torna dalla sua famiglia dopo dodici anni di assenza per comunicargli che sta per morire.
 
Louis (Gaspard Ulliel) è sul taxi che lo sta riportando a casa e guarda fuori dal vetro mentre, in montaggio alternato, sua madre Martine (Nathalie Baye) è intenta a preparare il pranzo. Fuori dal finestrino scorrono minuscoli frammenti di vite, storie appena accennate da rapide pennellate che subito ti catturano e delle quali vorresti sapere tutto mentre le immagini si incastonano con la musica che le accompagna in una fusione magica e perfetta. Quest’uso della musica tornerà sovente nell’ultimo ennesimo capolavoro di Xavier Dolan, spesso a suggellare il climax dei vari confronti tra Louis ed i suoi famigliari. Potrebbe sembrare un modo facile per catturare la pancia del pubblico, con piccoli perfetti videoclip, invece questi attimi sono altrettante finestre che Dolan improvvisamente apre per dare aria al suo dramma da camera, compreso in poche stanze e che cresce di intensità animalesca e di violenza trattenuta tra diluvi di parole balbettate, confuse e spesso banali in cui i silenzi, i volti, i dettagli e gli sguardi contano più di quello che si dice.
Allo stesso tempo questa sequenza è la chiave di lettura di Louis che per tutto il film apparirà distante da ciò che accade intorno a lui, perso nei suoi pensieri come se tra la realtà e lui ci fosse sempre quel vetro a separarlo e lui fosse solo uno spettatore.
Questa estraneità è ulteriormente sottolineata dalla scena successiva, quella in cui Louis arriva a casa e che riprende in primo piano la schiena della sorella Suzanne (Léa Seydoux) mentre il fratello rimane fuori fuoco, un uso, quello del fuori fuoco, che è un’altra delle caratteristiche che connotano la pellicola.
Da qui in poi sarà un diluvio di parole, spesso pronunciate, come fa notare a Louis il fratello maggiore Antoine (Vincent Cassel), solo per riempire il vuoto tra le persone.
Proprio la natura teatrale del testo, tratto da una piéce di Jean-Luc Lagarce, ha fatto sì che in molti accusassero il film di essere verboso e che i dialoghi fossero banali. Più che di banalità a noi sembra invece che si debba parlare di realismo; Louis ed i suoi famigliari sono di fatto degli sconosciuti che non sanno cosa dirsi, da qui l’apparente banalità delle loro parole. In realtà ciò che conta è il sottotesto, i silenzi e gli sguardi sottolineati da un uso sapiente dei primi piani che rende ancora più pesante l’atmosfera e che coglie i più minimi dettagli. La rabbia di Antoine, la dolcezza di Martine, l’insoddisfazione di Suzanne ed infine l’imbarazzo di Catherine (Marion Cotillard), moglie di Antoine.
Qualcuno potrebbe obiettare che è facile fare un buon film prendendo un testo teatrale ed affidandolo ad attori di simile bravura e a tal proposito mai come in questo caso è obbligatoria la visione in lingua originale. Anche su questo dissentiamo; gli attori bisogna saperli dirigere, bisogna essere capaci di fare quello che fa Dolan; braccarli con la macchina da presa, cogliere i minimi movimenti del volto, illuminare le rughe della Cotillard per dare un’aria ancora più dimessa e sconfitta al suo personaggio o regalare a Cassel un ruolo che ci restituisce un attore semplicemente immenso.
Bisogna essere capaci di costruire un congegno perfetto in cui l’ansia per la rivelazione accompagni lo spettatore dall’inizio alla fine lasciandolo senza fiato, bisogna essere capaci di alleggerire l’atmosfera con improvvisi balletti ed aprire flashback su note elettropop che ci ridiano fiato ed infine liberare 12 anni di sentimenti repressi in un finale di trattenuta violenza esplosiva. E magari fermarsi giusto un attimo ad inquadrare le nocche di Antoine lasciando il dubbio se quei segni siano frutto di una violenza nei confronti di moglie e figli oppure siano solo frutto del suo lavoro di costruttore di utensili. E concedersi anche un finale metaforico magari stonato ed inutile, prima dell’ultimo fuori fuoco su Louis che se ne va mentre parte Natural blues di Moby e tu ti ritrovi lo stomaco attorcigliato da tante emozioni e ti commuovi come uno stupido davanti ad una chiusura sicuramente paracula ma nonostante ciò comunque perfetta e magnifica. Perché bisogna saperci giocare con i sentimenti degli spettatori, portarli dove vuoi tu e per farlo bisogna essere dei grandi registi. E qualora ce ne fosse bisogno È solo la fine del mondo è solo un ulteriore conferma di un talento puro che non accetta di essere imbrigliato.
 
EMILIANO BAGLIO