Dumbo di Tim Burton è un film diviso a metà.
Nella prima parte, apparentemente, il regista si limita a timbrare il cartellino.
Siamo nell’America del 1919 ed Holt Farrier (Colin Farrell) che è appena tornato dalla guerra con un braccio in meno può riabbracciare i suoi figli; Milly e Joe (Nico Parker e Finley Hobbins) rimasti orfani della madre.
Il circo nel quale lavora, però, non naviga in buone acque ed il proprietario Max Medici (Danny DeVito) ha appena acquistato un’elefantessa gravida nel tentativo di risollevarne le sorti.
Burton porta a casa il lavoro per il quale è stato pagato realizzando, in sostanza, un remake del film d’animazione originale del quale riprende i momenti più iconici.
Rivediamo così il piccolo Dumbo confortato dalla proboscide materna, la distruzione del circo da parte di quest’ultima e persino la celeberrima danza degli elefanti rosa.
Altri elementi del lungometraggio originale vengono sparsi qui e lì come citazioni, dalla cicogna che porta il neonato, al topolino che nell’originale aiutava il piccolo a volare sino all’immancabile piuma magica necessaria a spiegare le orecchie.
Burton realizza un perfetto prodotto d’intrattenimento per famiglie, infarcito di citazioni cinematografiche che vanno dal musical classico ai riferimenti a Fellini.
In mezzo a tutto ciò ritroviamo i temi che da sempre percorrono il suo cinema.
La comunità di freaks emarginati che si dimostrano molto più uniti ed umani dei cosiddetti normali o l’immancabile bimbo orfano (in questo caso ben due).
Fatto sta che finalmente Dumbo vola e a quel punto, giustamente, lo spettatore si chiede come andrà avanti la vicenda visto che, di fatto, l’originale si chiudeva qui.
Ecco allora che compare sulla scena l’impresario Vandevere (Michael Keaton) insieme alla trapezista Colette (Eva Green), che propone una partnership a Medici, rivela il circo e porta tutti nel suo parco divertimenti; Dreamland.
È da questo momento in poi che Burton dirige veramente il suo film, quello che ha nella sua testa e stupisce come la Disney non si sia resa conto di cosa aveva in mente il regista.
Perché è evidente che Dreamland in realtà, altro non è che Disneyland; il riferimento è ovvio e viene sottolineato più volte.
Dumbo diventa così la vendetta del regista nei confronti di quel datore di lavoro presso il quale aveva cominciato la sua carriera senza trovare soddisfazione.
Ne viene fuori un film “politico” nel quale l’autore fa a pezzi Disney ed il suo sogno e quindi, di riflesso, l’american dream, svelandone il vero volto; quello di un capitalismo selvaggio e feroce interessato solo al profitto che non si fa scrupoli di sfruttare uomini ed animali.
Vandervere licenzia tutti gli artisti del circo, è interessato solo a sfruttare l’elefantino per convincere il banchiere Remington (Alan Arkin) a prestargli dei soldi e non si fa scrupoli nemmeno a far esercitare Colette senza rete di protezione.
Non a caso dentro Dreamland c’è un’attrazione chiamata Nightmare Island; il gioioso parco divertimenti cela al suo stesso interno la sua anima oscura, quella in cui ritroviamo rinchiusa anche la madre di Dumbo insieme ad altri poveri animali sfruttati come lei.
Proprio dentro Nightmare Island si svolge uno dei momenti più belli del nuovo film di Burton, interamente giocata sulla nebbia e sulle ombre cinesi, la sequenza si conclude con una rivelazione (che ovviamente non sveleremo) che è al tempo stesso, a nostro avviso, un’ode al cinema e alla sua capacità magica di giocare con la finzione facendola passare per realtà. Dietro questa sequenza c’è un discorso teorico interessantissimo che rimanda direttamente al mito della caverna di Platone. Insomma siamo ben lontani dal film per famiglie della prima metà, qui siamo nel regno di Tim Burton che, finalmente, si riscopre grande affabulatore e mago del travestimento.
Non è un caso che alla fine, la magia di Dumbo, che nel frattempo è tornato in Africa con la madre, riviva grazie ad una lanterna magica.
Tim Burton sembra volerci dire che oggi il cinema è la nostra memoria, a questa magnifica invenzione spetta il compito di trasmettere la nostra storia agli altri, con la stessa magia e lo stesso stupore di un tempo.