Dal 1926 al al 1975 nella Federazione Elvetica, tramite il programma Pro Juventute, venne attuato un vero e proprio genocidio. Le vittime furono gli Jenisch, i cosiddetti zingari bianchi. I bambini appartenenti a questa etnia vennero strappati alle loro famiglie per essere rinchiusi in istituti dove furono sottoposti ad esperimenti di eugenetica, sterilizzazioni di massa e violenze fisiche e psicologiche compresi bagni gelati ed elettroshock. Ancora nel 1986, ci avverte la didascalia che chiude Dove cadono le ombre, circa 100 Jenisch vivevano segregati in manicomi.
Per il suo primo lungometraggio di fiction Valentina Pedicini decide di raccontarci questa orrenda pagina del ‘900 attraverso la vicenda di Anna (Federica Rossellini), infermiera in un sanatorio per anziani situato proprio nello stesso istituto dove anni prima lei stessa fu vittima del programma Pro Juventute. All’improvviso tra i pazienzi arriva Gertrud (Elena Cotta) e per entrambe le donne vengono lentamente alla luce i fantasmi del passato.
Con Dove cadono le ombre la Pedicini si pone la domanda su come rappresentare visivamente l’idea delirante di una presunta purezza etnica e gli orrori di un genocidio. Un interrogativo insidioso al quale il cinema ha risposto in modi differenti. Dal canto suo la regista decide di cercare una purezza formale ed estetica che trasformi in materia filmica l’idea stessa di pulizia (intesa in senso letterale ed in senso lato) che stavano alla base del programma stesso.
Per fare questo Valentina Pedicini mette nuovamente in campo il suo straordinario talento che avevamo già visto all’opera nel meraviglioso documentario Dal profondo (potete recuperare la recensione qui http://www.euroroma.net/articolo.php?ID=2966). La perfezione formale di questo film è semplicemente stupefacente. Tutto appare calcolato secondo rigidi schemi geometrici. Le singole inquadrature sono sempre perfettamente bilanciate, non c’è nessun oggetto né nessun attore la cui posizione non sia studiata per comporre quadri perfetti con una perfetta organizzazione dello spazio. Lo stesso dicasi dei movimenti di macchina studiati al millimetro. Per ampliare il senso di soffocamento, di ordine, rigore e pulizia alla base dello sterminio, la regista ricorre ad una recitazione di forte impronta teatrale, volutamente straniata e controllata. Lo stesso dicasi per la scelta dei luoghi fortemente simbolici. L’istituto dove un tempo avvenivano le torture dei bambini Jenisch oggi è diventato il luogo dove si curano dei vecchi.
Tuttavia sotto questa superficie fredda e respingente si agita un vero e proprio magma.
Il rapporto tra Anna e Gertrud è molto più ambiguo di quanto non sembri. Non solo ben presto i ruoli di vittima e carnefice si capovolgono ma lo stesso passato di Anna non sembra così innocente come la ragazza vorrebbe far credere e probabilmente anche lei ha avuto un ruolo attivo nelle torture e nelle sevizie. D’altra parte è lei stessa a dire a Gerturd; “Noi non siamo uguali. Io sono più cattiva”. Una cattiveria che trova sfogo nel rapporto con Hans (Josafat Vagni), un ritardato mentale che oggi svolge il ruolo di tuttofare nell’istiuto e di servo di Anna e che un tempo fu anche lui vittima degli esperimenti di eugenetica e di sterilizzazione.
A questa ambiguità di fondo si aggiunge un sottotesto fortemente sessuale mai esplicitato, sia per quanto riguarda i rapporti tra le due donne sia il rapporto tra Anna ed Hans; attrazione sottolineata da una scena sotto la doccia tra le due donne ed un (presunto) atto sessuale tra la ragazza e l’inserviente/servo.
Sullo sfondo il rimpianto da parte di Anna per aver abbandonato la sua amichetta Franziska i cui resti vengono cercati ogni giorno da Hans, su ordine di Anna, nel vasto giardino che circonda il sanatorio.
Solo quando Anna riuscirà a liberarsi dei fantasmi del passato potrà finalmente tornare alla libertà facendo entrare (letteralmente) la luce nella sua vita.
Dove cadono le ombre è un film estremamente rigoroso che pretende attenzione da parte dello spettatore, tuttavia proprio questa estrema cura formale, questa ferrea volontà di organizzare la scena geometricamente asciugando tutti i sentimenti per rendere visivamente l’oppressione che schiaccia tutti i protagonisti, finisce per essere anche il limite maggiore di una pellicola che non riesce mai a far esplodere il potente materiale che ne è alla base.
L’orrore del genocidio, la cattiveria delle due donne, le pulsioni sessuali represse, il rapporto tra Anna ed Hans, il senso di colpa per l’abbandono di Franziska pur essendo presenti nella narrazione rimangono sempre soffocati.
Ci sembra che le costrizioni tipiche di un progetto di fiction abbiano in qualche modo imbrigliato il talento della Pedicini, quel talento che invece scorreva libero ed impetuoso nel precedente Dal profondo.
Ed infine ci chiediamo anche che spazio possa avere un film che richiede così tanto impegno nella visione in un panorama superficiale e distratto come il nostro e quanto potrà resistere nelle sale.
Temiamo molto meno di quanto non meriterebbe Valentina Pedicini.