23-26 luglio 1967. Detroit, in seguito ad una retata della polizia in un locale privo di licenza frequentato da neri nella città scoppia la rivolta. Bilancio finale 43 morti, 1.189 feriti, più di 7.200 arresti ed oltre 2.000 edifici distrutti.
A 66 anni compiuti Kathryn Bigelow, dopo cinque anni di silenzio, torna al cinema con un film ambiguo, volutamente diviso in due parti che ci riconsegnano una delle più grandi registe dei nostri tempi.
Il suo nuovo film, Detroit, tratto da fatti realmente accaduti, riprende il filo del discorso già iniziato con Zero dark thirty. Lì veniva ricostruita la cattura di Osama bin Laden senza tacere sulle violenze e le torture perpetrate dall’esercito per estorcere confessioni. Cambia l’epoca storica ma non cambia la violenza da parte delle istituzioni sembra volerci dire la regista americana. Stavolta a picchiare, torturare ed ammazzare senza motivo tre ragazzi neri è una polizia violenta e razzista che non ha mai pagato per questi tra brutali omicidi, come per tanti altri.
In piena epoca Trump la Bigelow decide di attaccare frontalmente il cuore nero e razzista degli Stati Uniti con un film profondamente politico senza rinunciare neanche un momento alla sua straordinaria capacità di regista di lungometraggi di azione, costruendo una pellicola ancora una volta magistrale nella messa in scena che riesce a costruire un clima di insopportabile tensione nonostante la maggior parte dell’azione si svolga tra il chiuso di quattro mura.
La prima parte del film segue la rivolta di Detroit come solo una regista così capace sa fare, con un film frammentario e dal tagli quasi documentario tra immagini sgranate che potrebbero essere benissimo filmati d’epoca ed uno scenario non così distante dalla guerra irachena descritta nel già sopracitato film e nel precedente The hurt locker.
In questo scenario si intrecciano le storie di tre persone.
La prima è Dismukes (John Boyega), un nero che, tra i vari lavori, svolge quello di guardia privata. La seconda è quella di Larry Reed (Algee Smith), cantante dei The dramatics e del suo amico Fred (Jacob Latimore), che si ritrovano in un teatro per un concerto al quale dovrebbe esibirsi il gruppo nella speranza di esser messo sotto contratto dalla Motown.
Infine c’è Philip Krauss (Will Poulter), agente di polizia bianco e razzista.
Casualmente Larry e Fred finiscono all’Algiers motel. Sarà proprio dalla finestra di questo motel che uno dei tanti avventori sparerà dei colpi con una pistola da starter verso la guardia civile.
A questo punto il film della Bigelow cambia completamente pelle, lascia sullo sfondo il racconto corale e la rivolta e si chiude nelle stanze del motel.
Qui Krauss ed altri poliziotti sfogano tutta la loro violenza razzista nei confronti degli avventori del motel (comprese due ragazze bianche), in un crescendo di tensione e violenza che sfocerà nell’inevitabile tragedia.
Detroit è dunque un film dalle due anime. La prima è quella consueta della Bigelow, un grandioso film di azione corale capace di tratteggiare intere psicologie con pochissimi tratti. La regista passa indifferentemente e con altrettanta capacità dalle scene di rivolta al quotidiano dei personaggi con tanto di esibizioni scatenate da parte di Martha & the Vandellas, riuscendo a ricostruire un’intera epoca in ogni suo aspetto da quello musicale a quello politico con pochissimi elementi, Basta un manifesto su un muro, una canzone, un vestito ed ecco che viene rievocata la guerra in Vietnam, il soul della Motown, la tensione razziale, la dura vita quotidiana dei neri americani, la violenza razzista della polizia.
La seconda parte del film è invece una sorta di dramma da camera, girato in quattro stanze e con metà degli attori immobili facce contro il muro. È qui che la regista riesce a costruire un’atmosfera di crescente violenza, fisica e verbale ed una tensione crescente sempre pronta a scoppiare che ben presto diventa insopportabile per lo stesso spettatore che si ritrova anch’egli impotente ad assistere ad un massacro razzista.
C’è spazio anche per una coda con il processo dal quale i poliziotti usciranno puri ed immacolati, conclusione amara di un film che sta lì a ricordarci quato violenta e razzista sia una parte dell’America e delle sue istituzioni, con un film di pura azione che è un vero e proprio corpo contundente scagliato nel presente.