Burning – L’amore brucia.
Un poema visivo in cui la forma è sostanza.
 
Jong-su (Yoo Ah-in) rincontra dopo molti anni la sua compagna di scuola Hae-mi (Jeon Jong-seo). I due hanno una relazione interrotta dalla partenza della ragazza per l’Africa. Quando Hae-mi torna, insieme a lei c’è Ben (Steven Yeun). Nonostante Jong-su di fatto ora sia il terzo incomodo, i tre cominciano a frequentarsi sino a quando Hae-mi scompare misteriosamente.
 
Jong-su è un’aspirante scrittore. Burning è tratto da un racconto di Haruki Murakami ma nel film si sente tanto l’influenza di William Faulkner, citato più volte da Jong-su come fonte d’ispirazione, quanto di Francis Scott Fitzgerald ed in particolare de Il grande Gatsby che è il soprannome che Jong-su affibbia a Ben.
La scrittura è dunque fondamentale nell’ultimo lavoro di Lee Chang-dong, sia a livello di tematica sia per quanto riguarda la sceneggiatura.
Al centro dell’opera troviamo infatti il processo creativo, il farsi stesso del film, come possibile chiave interpretativa di una realtà che sfugge.
Come confessa lo stesso Jong-su per lui “il mondo è un enigma”. Forse, allora, raccontare storie può divenire un modo per dare forma a questo mistero.
Bisogna però essere in grado di comprendere quanto questi racconti siano veri; come nel caso di Hae-mi quando rievoca la sua caduta in un pozzo da bambina, fatto di cui nessuno sembra ricordarsi.
Forse la ragazza sta inventando o forse sta mandando una richiesta di aiuto travestita da metafora, proprio quella metafora di cui chiede il significato ai suoi due amici/amanti.
Forse Burning possiede già in sé tutte le risposte ai quesiti che, apparentemente, rimangono insoluti.
Bisogna solo essere capaci di cogliere l’invisibile, come nel caso del gatto di Hae-mi che non si fa mai vedere eppure c’è, almeno a giudicare dalle tracce di cacca lasciate nella sabbietta.
Come nella pantomima messa in scena dalla ragazza bisogna dimenticarsi che l’arancia non c’è e se Jong-su non trova la serra alla quale Ben avrebbe dato fuoco è perché è difficile vedere ciò che si ha sotto gli occhi.
Insomma Burning ci fornisce tutte le chiavi di lettura, proprio sotto il nostro naso, il problema è riuscire a leggerle.
Prendiamo ad esempio la misteriosa scomparsa di Hae-mi. Lei stessa, narrando del suo viaggio in Africa, confessa che, ad un certo punto ha sentito il desiderio di scomparire nel nulla. Più tardi una sua amica dirà a Jong-su che sono tante le ragazze che fanno perdere le loro tracce, sommerse dai debiti e lo stesso aspirante scrittore scoprirà che anche la sua amica si trovava in questa situazione.
La conclusione è che se vogliamo trovare un “senso” alla storia narrata da Lee Chang-dong questo sta nella forma stessa del film.
Nel suo procedere lento ed affascinante, sospeso tra immagini bellissime che rimangono impresse nella memoria incastonate in piani sequenza che ci trasmettono lo smarrimento di Jong-su.
La sua corsa nel verde tra la bruma del mattino, il corpo seminudo di Hae-mi che balla contro il tramonto sulle note di Miles Davis, la neve del finale.
Burning ci invita a lasciarci andare a farci cullare, ad entrare in una dimensione diversa, simile al sogno, vicina a quelle storie narrate dai suoi personaggi in cui reale e fantasia si mescolano di continuo.
Eppure, nonostante questa sua dimensione estetica onirica, dentro ci sono anche altri temi.
Lee Chang-dong non rinuncia a raccontarci il presente della sua Corea attraverso tre giovani che ne sono il ritratto.
Jong-su viene dalla campagna dove è costretto a tornare a causa del padre sotto processo. Osserva la realtà ma ne è quasi escluso, continuamente spaesato e fuori posto, isolato dal resto del mondo come sottolinea la bellissima inquadratura di lui seduto nel minuscolo appartamento di Hae-mi, piccolissimo ritaglio di spazio all’interno di una metropoli nella quale l’uomo si perde e diventa invisibile.
Hae-mi è una ragazza probabilmente insoddisfatta dalla vita che maschera con la sua prorompente vitalità una probabile depressione. Soprattutto è una donna attiva, che conquista i suoi uomini e li possiede quando decide lei in una società che, come ci dice il regista, vorrebbe ancora la donna relegata in posizioni defilate e di second’ordine.
Infine c’è Ben, il volto rampante e ricco della Corea che più volte viene colto da Jong-su nell’atto di sbadigliare; ha tutto ma nulla sembra coinvolgerlo e svegliarlo dal suo torpore. Sono scambi di sguardi carichi di significati, come molti piccoli particolari della pellicola, tracce lasciate come briciole nelle mani dello spettatore per decifrare ciò che vede. Sempre che stia attento a ciò che ha sotto gli occhi che, come già ribadito, è proprio quello che abbiamo davanti a noi che rischia di diventare invisibile.
Ma non basta, c’è la critica al sistema giudiziario coreano, i messaggi di propaganda che la Corea del Nord diffonde al confine, una descrizione di una gioventù probabilmente senza futuro che guarda la vita senza parteciparvi veramente.
Forse l’unica via di scampo allora è osservare, alla ricerca di uno spunto per il grande romanzo che si ha in mente; essere spettatori della vita.
Salvo poi, finalmente, decidere di entrare in azione, bruciati da un ossessione che, probabilmente è solo dentro di noi.
 
EMILIANO BAGLIO