Elliott Anderson (Kevin Costner) dopo aver perso la figlia morta di parto e la recente scomparsa della moglie è rimasto da solo ad occuparsi della nipotina Eloise (Jillian Estell). La nonna materna Rowena (Octavia Spencer) è però decisa a fare di tutto per avere la custodia legale della bambina. A complicare ulteriormente le cose c’è il fatto che Elliott è bianco mentre sua nipote è nera.
Si può ragionevolmente affermare che gli Stati Uniti d’America hanno affidato la narrazione del proprio mito al cinema e non è un caso che il western sia stato inventato lì. L’America intesa come terra di frontiera, come luogo delle opportunità e della libertà, come il posto dove anche il figlio di un calzolaio può diventare Presidente, tutto questo è stato narrato attraverso la settima arte. Il grande schermo è stato il luogo dove è stata raccontata l’epica degli Stati Uniti. Kevin Costner è forse l’ultimo grande rappresentante di quel cinema classico hollywoodiano declinato in chiave democratica e progressista. Per questo forse “Black and white” non presenta nulla che lo spettatore non abbia già visto centinaia di volte. Tutti i pezzi del puzzle sono presenti al momento giusto. Ci sono le sequenze melodrammatiche dalla lacrima facile, i sussulti di emozione ed il legal thriller. Non mancano neanche i siparietti comici affidati ai duetti tra nonno e nipote e al personaggio di Duvan (Mpho Koaho). Ed infine puntuale arriva persino il grande monologo affidato a Costner che riassume il senso del film e strappa un applauso a scena aperta al pubblico del Festival di Roma. “Black or white” ti riversa addosso tonnellate di retorica mescolate a melassa sparsa a piene mani, buoni sentimenti come se piovesse ed un ottimismo tipicamente americano che corre a braccia aperte verso l’inevitabile lieto finale. È la classica pellicola che ti vedresti in una domenica pomeriggio piovosa comodamente steso sul divano con la copertina di lana circondato dai tuoi cari. Eppure nonostante questo possiede la capacità di prenderti per mano e portarti a spasso nel suo mondo come fossi un bambino. Ti fa abbassare qualsiasi difesa e ti trasporta nel suo sogno. Dinnanzi a pellicole come “Black or white” non c’è nulla che tu possa fare. Ridi quando c’è da ridere, piangi e ti commuovi quando lo decide il regista. Patisci per la sorte dell’eroe, ti immedesimi nei suoi drammi. E quando Kevin Costner ti dice “non è il primo pensiero che conta, quando vedi una persona di colore, ma il secondo, il terzo e il quarto, e quelli sono i pensieri che mi definiranno come qualcuno che è tollerante o come qualcuno che è ignorante, o peggio un razzista” tu applaudi come un cretino quel messaggio così insopportabilmente retorico nel suo essere sin troppo politicamente corretto. Magari lo fai anche perché a dirtelo è stato proprio lui, l’ultimo grande rappresentante di una serie di attori che non ha fatto altro che trasportare sullo schermo quel sogno con cui sei cresciuto sin da bambino. La speranza già raccontata da Frank Capra all’epoca del New Deal, quella perfettamente incarnata da Spencer Tracy in “Indovina chi viene a cena”. Per farti credere in questa illusione non serve neanche l’avvertimento iniziale che il film “è tratto da una storia vera”. “Black or white” funziona già perfettamente così com’è. Ha anche l’accortezza di presentarti un eroe pieno di difetti e troppo dedito all’alcool; una comunità nera perfettamente integrata ma nella quale non manca la mela marcia incarnata dal padre di Eloise (André Holland) tossico da crack. Edulcora la realtà senza però calcare troppo la mano. Poi ovviamente tu lo sai che non è quella l’America, ma che semmai sono altri registi ed attori che ti hanno fatto vedere il suo vero volto, una faccia spesso dura, violenta e razzista. Però oggi tu non sei venuto a vedere lo sterminio degli indiani ma l’eroe di “Balla coi lupi”, hai scelto di farti cullare ancora una volta da quell’utopia che stabilisce “che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”. Hai deciso di non ascoltare chi criticherà questo film bollandolo come una favoletta ma di credere ancora una volta nel sogno che da sempre ti ha raccontato il grande cinema classico americano. Che fa proprio quello per cui è stata inventata la settima arte; creare illusioni che colpiscano il cuore e la pancia.