L’ultima opera del rumeno Radu Jude in realtà è un saggio in forma di film.
Ad aprirlo provvede una sorta di prefazione; qualche minuto di un porno amatoriale che è la causa di tutti i guai che dovrà affrontare Emi (Katia Pascariu) che rischia il licenziamento dalla scuola dove insegna poiché suo marito (o il suo amante?) lo ha caricato su Pornhub.
Radu Jude lo piazza all’inizio, come fosse una provocazione programmatica ad uso e consumo dei benpensanti, dei moralisti e degli ipocriti che saranno il bersaglio dell’intera pellicola.
Segue il primo capitolo; Strada a senso unico che ha la stessa funzione che avrebbe in un saggio l’introduzione.
In realtà si tratta di una lunghissima sequenza in cui il regista segue da lontano Emi mentre cammina per Bucarest.
Non si tratta certo di un vero e proprio pedinamento giacché la macchina da presa si tiene a debita distanza e spesso vaga per i fatti suoi.
Tra una mascherina e l’altra (il film è stato girato in piena pandemia), Radu Jude si sofferma ad osservare le contraddizioni della sua capitale, ancora divisa tra le rovine del regime comunista e le insegne scintillanti del capitalismo.
Palazzi fatiscenti si alternano a centri commerciali e palestre dalle insegne luminose.
Alle volte basta inquadrare un fiore che si fa strada nell’asfalto rotto per condensare in una sola immagine tutto il contrasto tra le due realtà e non è un caso che la sequenza si chiuda con le riprese di un cinema in rovina, come a suggerire che, nel nuovo osceno regime capitalista, non c’è più spazio per la cultura.
Il secondo capitolo; Breve dizionario di aneddoti, simboli e meraviglie, è quello in cui vengono esposte le tesi di fondo ed è anche il più interessante dal punto di vista cinematografico.
Qui il regista gioca con materiali diversi; si va dalle immagini d’archivio alle riprese fatte con il cellulare, dalle foto d’epoca a brevi spezzoni di porno dell’epoca del muto, dalle immagini dei telegiornali alle riprese di semplici oggetti.
Ad ogni “quadro” corrisponde un concetto.
Radu Jude ripercorre la storia rumena puntando il dito contro i mali che la affliggono.
Ecco allora risalire dal pozzo della memoria le immagini dell’olocausto seguite da quelle odierne che documentano le violenze quotidiane contro i rom.
Tutto viene messo alla berlina, dall’ipocrisia della chiesa cattolica, complice delle atrocità naziste, al maschilismo della società rumena, dalle violenze contro i minori in ambito familiare sino al sesso, imperante ed onnipresente.
Non mancano nemmeno riflessioni sul significato del cinema o sul montaggio in un film che ricorda le avanguardie sovietiche ed oscilla tra il cine-occhio di Dziga Vertov ed il cine-pugno di Sergej Ĕjzenštejn.
Le teorie esposte in questo segmento centrale trovano la loro rappresentazione plastica nell’ultimo capitolo; Prassi e allusioni, in cui viene messo in scena il processo ad Emi.
I genitori dei bambini chiamati a giudicare la maestra sono altrettante incarnazioni dei mali appena esposti.
Abbiamo così l’intellettuale di sinistra progressista che si riempie la bocca di teorie, il prete, un vecchio generale nostalgico, reazionario e razzista, un giovane pilota che si riempie la bocca di banalità e frasi fatte e così via.
Su tutto domina l’ipocrisia, mentre infatti i nostri solerti genitori crocefiggono la nostra malcapitata, rea di aver messo in piazza ciò che deve rimanere privato, il filmato pietra dello scandalo non cessa di girare di mano in mano.
Per il regista siamo tutti degli ipocriti, pronti a spiare nelle vite altrui, malati di voyeurismo e repressi sessualmente e siamo tutti pronti ad emettere sentenze e a giudicare gli altri.
C’è però spazio per un ultimo sberleffo, per l’ennesima sfida, allo spettatore vengono proposti tre diversi finali che sono altrettante possibili conclusioni di un film/saggio che, alla fine, risulta più un’interessante operazione intellettuale che un’opera cinematografica pienamente riuscita e convincente.