Dopo l’esordio con The nest (http://www.euroroma.net/8205/ARTE%20E%20SPETTACOLO/the-nest-il-nido-un-ottimo-esordio-gotico-che-purtroppo-si-sgretola-miseramente-nel-finale.html), Roberto De Feo, stavolta insieme all’esordiente Paolo Strippoli, torna sullo schermo e cerca di volare alto.
I due registi si muovono su più fronti.
Sin dal suo titolo programmatico il loro film decide, apparentemente, di giocare a carte scoperte con lo spettatore ed in particolare con l’appassionato di horror.
Quello che ci accingiamo a vedere sarà, appunto, una classica storia dell’orrore.
Ecco allora che i personaggi saranno altrettanti prototipi già visti mille volte sullo schermo.
Abbiamo Mark e Sofia, la classica coppia di americani in vacanza (Will Merrick e Yuliia Sobol), il medico in crisi Riccardo (Peppino Mazzotta) che farà la parte del duro, Fabrizio l’aspirante regista nerd (Francesco Russo) ed infine Elisa, la giovane fragile ragazza immancabile eroina della storia (Matilda Lutz).
I cinque, che si ritrovano insieme a condividere un camper sulle strade della Calabria, si ritroveranno protagonisti di un vero incubo horror.
De Feo e Strippoli costruiscono una storia interamente giocata sui cliché e sulle citazioni.
Ci si potrebbe divertire a stilare la lista dei titoli omaggiati in A classic horror story.
Alcuni li ricorda lo stesso Fabrizio, da La casa a Nightmare passando per Venerdì 13; altri sono palesi, primo tra tutti quel The wicker man (Robin Hardy, 1973), a cui influenza è oramai sempre più seminale.
D’altronde sarà la stessa Elisa a rinfacciare a Fabrizio la scarsa originalità del suo film.
Gli elementi classici del genere ci sono tutti; l’incidente in camper, il risveglio in una strana radura dominata da un’inquietante casetta di legno, gli assassini mascherati, il bosco dal quale pare impossibile fuggire.
Su questa trama vista già mille volte i due autori immettono elementi “folk” appartenenti alla nostra tradizione.
Seguendo l’esempio aperto da The witch, A classic horror story innesta nel proprio racconto la leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i tre cavalieri simbolo dei riti di affiliazione alla ‘ndrangheta.
Si tratta di una delle scelte migliori del film, cercare una via al cinema di genere che affondi le proprie radici nella nostra tradizione, operazione tentata innanzitutto da Matteo Garrone nel suo Il racconto dei racconti e poi proseguita da altre pellicole quali la recente Il mio corpo vi seppellirà (http://www.euroroma.net/9976/ARTEESPETTACOLO/il-mio-corpo-vi-seppellir224.html).
Tuttavia, proprio quando lo spettatore pensa di aver capito tutto, De Feo e Strippoli calano l’asso ed imboccano senza esitazioni la strada meta cinematografica.
Occorre dirlo, non tutto funziona nel loro film.
L’innesto della tematica “mafiosa”, appare magari un po’ forzato; ci sono evidenti buchi di sceneggiatura (che fine fanno ad esempio i paesani che improvvisamente svaniscono nel nulla?) e soprattutto alcune scene grottesche, prima tra tutte il litigio tra Fabrizio e la bambina, stridono con il tono generale della pellicola.
Tuttavia i due registi, indubbiamente, sanno il fatto loro.
A classic horror story è un film che pur nutrendosi, volontariamente, di cliché riesce comunque ad avere una sua originalità, dovuta proprio all’innesto folk ma soprattutto convince dal punto di vista registico.
Si apre il cuore dinanzi alle riprese aeree dei boschi calabri, stupisce l’uso della colonna sonora con La casa di Sergio Endrigo ed Il cielo in una stanza di Gino Paolo messe a commento delle scene più splatter, il sangue abbonda e non ci vengono risparmiati momenti da vero e proprio torture porn.
Soprattutto A classic horror story è una vera e propria dichiarazione d’intenti nonché una rivendicazione/provocazione/grido.
Ad un certo punto, non diremo come e perché, qualcuno commenta su di un computer “gli italiani non sanno fare film horror”.
Lo stesso tema del monologo pronunciato da Fabrizio quando accusa il pubblico di storcere il naso dinanzi agli horror nostrani salvo poi appassionarsi ai casi più truci della cronaca nera.
De Feo e Strippoli invece rivendicano il loro diritto a fare cinema di genere, giocando con la loro stessa materia e con i luoghi comuni salvo poi spiazzare tutti con una svolta improvvisa, tra sequenze veramente ottime (il pranzo) ed un finale in chiave revenge movie.
Insomma la loro è un’operazione molto più complessa di quanto non possa sembrare, compreso la trovata geniale di quel Bloodflix finale che fa il verso alla piattaforma Netflix che ospita il film in un continuo gioco di specchi e rimandi nel quale i cliché vengono rigirati a loro piacimento dai due registi.
A classic horror story è innanzitutto un progetto ambizioso, dallo sguardo autoriale e cinefilo e soprattutto, che è poi quel che conta, è un film dal respiro internazionale; uno di quei titoli che possono tranquillamente aspirare ad un mercato internazionale senza sfigurare.
Esattamente quello di cui abbiamo bisogno.