Lost in translation


Chou regista franco/cambogiano racconta la sensazione di spaesamento di chi per ragioni sociali si ritrova straniero nella sua terra natia. Il dramma di chi a casa sua è più straniero che nel suo paese adottivo. 

Per farlo la sceneggiatura parte dal dramma storico dei bambini dati in adozione da genitori coreani per sfuggire dalla povertà causata dalla guerra fratricida. La speranza di regalare ai figli un futuro migliore spingeva queste famiglie a privarsi di un figlio. Così la Storia diventa storia privata di chi ha negato l'identità ai figli per vederli stare meglio. 

Return to Seoul diventa un viaggio nell'animo piuttosto che fisico. La protagonista alla ricerca di se stessa in una cultura che non conosce, dove tutte le consuetudini sociali sono codificate in modo diverso, vive in uno stato di straniamento perpetuo. La Corea non è casa sua anche se tutti, dati i tratti del viso, faticano a capire che non sia una di loro. In Francia non si è  mai sentita più che adottata, l'intrusa fortunata. Come uscirne? 

Il film si regge sulla bravura della protagonista, algida, ma capace di lasciar trasparire una fragilità sempre sul punto di esplodere, magari in uno sfogo fragoroso che non arriva mai. Notevole. 

Per il resto davvero poco di nuovo. Si dimostra interessante il racconto della vita quotidiana coreana poco vista e poco descritta in precedenza perché i grandi maestri di fama internazionale come Kim Ki-Duk o Park Chan-Wook hanno spesso raccontato realtà stilizzate o metaforiche. Però niente di nuovo sotto il sole purtroppo.