Ammetto, sin dalla prima riga, di non capire la filosofia che sta alla base delle opere di Weerasethakul. Persino Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, Palma d'oro di Cannes 2011, resta per me un grande boh impossibile da decifrare.

Memoria parte da un assunto interessante e soprattutto nella prima parte convince: incentrare un film su un suono, e per estensione sui suoni, permette al regista di cercare strade nuove e giocare appunto col sonoro. Il mistero di un suono sconosciuto all'inizio incuriosisce, che un suono possa avere una forte componente evocativa è accertato, e qui diventa il motore narrativo dell'opera.

La mano del regista è salda, crea lunghe scene piuttosto statiche che portano lo spettatore in un mondo metafisico, dove la ricerca dell'umano e dell'io sono la base.

E allora cosa non va? Non funziona una sceneggiatura ridotta all'osso che pone domande, ma al momento di scogliere i nodi inizia una quadriglia di filosofie moderniste in chiave newage panteistiche a metà strada tra quello che un certo pubblico eco-modaiolo vuole sentirsi dire e la confusione del tout se tient con cui si può giustificare qualsiasi azione naturale.

Passato in concorso a Cannes nel 2021 dove ha portato a casa il Premio della giuria, la pellicola, con protagonista Tilda Swinton in un ruolo asettico, è ostica anche per un pubblico avvezzo alle opere da Festival. Giudicate voi quanto potrà funzionare in sala.