La cosa migliore di A complete unknown? Il fatto che mi abbia lasciato una voglia incredibile di rivedere Io non sono qui di Todd Haynes. Mangold racconta l'ascesa di Bob Dylan in modo lineare e senza scossoni legandola alla storia degli Stati Uniti, ma questo è davvero poco se non un timido pretesto per contestualizzare i brani iconici.
A complete unknown cerca di legare la storia del cantante alla storia degli Stati Uniti con piccoli inserti che mostrano Kennedy, Martin Luther King, ma tutto resta sempre molto in superficie. A Mangold sembra solo interessare vendere un'icona, l'immagine forte di Bob Dylan durante gli anni Sessanta dello scorso secolo.
Peccato che affidi il ruolo ad un'altra icona, questa volta moderna come Timothée Chalamet , che non riesce a scomparire nei panni del protagonista. Molto bravo nel canto, ma spesso troppo statico e imbalsamato per convincere (ricorda spesso le copertine che abbiamo visto in questi anni). Decisamente meglio Edward Norton nei panni del suo mentore.
La regia di Mangold cerca di stringere spesso sui volti dei protagonisti e alterna questi primi piani ai campi lunghi dei concerti dove la musica folk dovrebbe farla da padrone. Ne esce però una scarsa analisi dei personaggi (anche se a discolpa del film Dylan è notoriamente un personaggio sfuggente) e al contempo una rappresentazione dei concerti statica.
Insomma ci si aspettava di più da un film che arriva alla notte degli Oscar con otto candidature e pretende di raccontarci una fetta della rivoluzione culturale americana. Forse troppo americano, forse troppo Sixty resta un oggetto troppo oscuro e indefinito per il pubblico nostrano.