INTERVISTA A PUPI AVATI


 


 

Intervista al Maestro Pupi Avati 

INTERVISTA AL MAESTRO

Pupi Avati: «Sogno di piacere a tutti»

Mentre Dante, il film che sognava di girare da 20 anni è al cinema, in questa intervista Pupi Avati racconta del suo rapporto con la scuola, del senso di inadeguatezza da cui non si è ancora liberato e dell'incertezza per il futuro

MARIO MANCA

6 OTTOBRE 2022


 

A quasi 84 anni, Pupi Avati ha l'entusiasmo di un ragazzino. Impegnato nella promozione di Dante, il film che ha sognato di realizzare per vent'anni e che è al momento tra i primi posti del box office italiano, il regista dimostra di possedere il raro dono di regalare risposte sempre diverse alle decine di interviste che concede, offrendo uno spaccato di umanità e intelligenza decisamente raro oggigiorno. Il suo film sul Sommo Poeta non è solo il ritratto del letterato, ma dell'uomo che ha combattuto tutta la vita per legittimare le sue idee e per vivere l'amore che ha ispirato le sue opere e sublimato la sua esistenza. Servendosi del legame di stima con Boccaccio (Sergio Castellitto), il primo a riconoscerne la grandezza e a rendere omaggio alla sua opera monumentale, Avati ci presenta un'umanità grezza, sporca e maledetta capace, tuttavia, di risplendere grazie al potere della letteratura.

ALBERTO BRAVINI INFO@BRAVINIPHOTO.IT

Attraverso un cast che va da un bravissimo Alessandro Sperduti nel ruolo di Dante a una eterea Carlotta Gamba in quello di Beatrice, passando per la rivelazione Romano Reggiani nei panni di Guido Cavalcanti, Avati, un po' come aveva fatto ne I cavalieri che fecero l'impresa, ci riporta a un mondo in cui le donne erano alla mercé degli uomini e l'unico modo per legittimare la propria forza era attraverso la spada e l'onore, facendo però anche tanta attenzione all'amore e alla lealtà che, nel caso di Dante, si sono spesso rivelate due armi a doppio taglio. Quando ci risponde al telefono Pupi Avati è nel suo ufficio di Roma, impegnato nel casting del suo prossimo progetto perché se c'è una cosa che dobbiamo riconoscere al regista è la sua incapacità a restare fermo, come se avesse paura di rimanere impantanato nella stasi. 

Già al lavoro su un nuovo progetto, quindi?
«Sì, ma non vorrei parlare di quello che faccio. Quando c'è un film che è uscito da poco non puoi già commettere un adulterio parlando del prossimo».

È bellissimo che parli di matrimonio perDante, un film che voleva realizzare da tempo. 
«Dante, nella mia filmografia, è del tutto speciale. Ho impiegato 20 anni a convincere qualcuno a produrlo, e sono sempre 20 anni che aspettavo di raccontare questa storia. Adesso che ce l'ho fatta mi sento orgoglioso di esserci riuscito, era un grande sogno della mia vita».

Oggigiorno si parla tanto di «film testamento», di quelle pellicole che sopravvivranno a chi li ha girati: pensa che Dante potrebbe essere il suo?
«In Dante si riassume molto del mio cinema. Nella mia carriera sono partito da vari momenti ispirativi, dal gotico all'autobiografico, dal romantico allo storico, e in Dante convivono molte delle suggestioni che hanno caratterizzato la mia filmografia. È una sorta di summa».

Ci sono voluti 20 anni prima di poterlo girare: confessi che non ci sperava più.
«I grandi sogni per me si realizzano sempre, mentre quelli piccoli no: è l'opposto di quello che pensa la ragione. Se hai la caparbietà e la convinzione, un sogno che reputi necessario arriva e, per me, Dante era necessario. Non è mai stato fatto un film o una fiction su Dante Alighieri: fortunatamente, per i 700 anni dalla morte, la Rai si è sentita quasi costretta a farlo».

Mi dice un suo piccolo sogno che non si è mai realizzato?
«Ce ne sono un'infinità. Dalle storie d'amore adolescenziali al sogno di diventare un grande musicista».

Pensa che quello del musicista fosse piccolo?
«Nelle sue dimensioni, sì. Sognavo di seguire un jazz che negli Stati Uniti era morto da 40 anni: il jazz tradizionale, delle origini. Eravamo completamente anacronistici, mentre nel cinema ho trovato il mio tono di voce, la mia calligrafia. Può piacere come non piacere, ma il mio cinema non assomiglia a quello che fa nessuno». 

Secondo lei perché nessuno prima di lei ha trovato il coraggio di girare qualcosa su Dante? 
«Per il senso di inadeguatezza».

Lei, tra l'altro, ha puntato sulla chiave umana del poeta, non sulla Commedia.
«Mettere in scena la Commedia sarebbe stato insensato, trattandosi di un'opera ineffabile che non ha bisogno delle figurine. La vita di Dante è, invece, rimasta molto nell'ombra, anche sulla base dei miei rapporti con lui a livello scolastico».

Cioè?
«Il Dante che ci veniva imposto era messo su un piedistallo così alto nella sua dismisura poetica e nella sua onniscienza che faceva che noi lo studiassimo a memoria senza provare nessun tipo di emozione o identificazione. Ho cercato attraverso il romanzo che ho scritto e poi attraverso il film di raccontare il Dante ragazzo. Come dice Boccaccio, l'amore di Dante per Beatrice assomiglia molto alle storie d'amore che avevo da ragazzo».

È un pensiero molto romantico.
«Lo sono, ahimè. E anche questo mi rende completamente anacronistico».

Pensa che sia brutto essere romantici?
«Per la maggior parte delle persone è un limite».


 






 

Perché lo crede?
«Perché oggi per le persone l'idea del “per sempre”, una locuzione avverbiale molto presente nelle interlocuzioni di un tempo, non esiste più. Tutte le ragazze e gli amici che ho avuto nelle mia vita ho pensato che fossero per sempre, ma poi non lo erano. Oggi nessun cantautore usa l'espressione “per sempre” nelle sue canzoni, c'è una sorta di pudore per chi immagina queste cose. Ormai il ”per sempre" lo applichi solo alla morte».

Il suo amore per Dante, magari, sarà per sempre. Quando se n'è innamorato? 
«Nella mia fase di acculturazione. Quando mi sono confrontato con il cinema romano di allora, gli sceneggiatori e i registi erano persone molto colte e, di conseguenza, se volevo instaurare una comunicazione con loro, dovevo esserlo anch'io. Una volta che ho chiuso con la musica, ho avviato da autodidatta un mio approccio riguardo ai classici fino ad arrivare a Dante, scoprendo che era tutt'altra cosa rispetto a quello che mi avevano insegnato a scuola. Attraverso la Vita Nova, la rendicontazione della storia d'amore con Beatrice scritta dopo la sua morte, mi sono talmente riconosciuto, emozionato e commosso che ho iniziato a studiarlo e da allora non ho più smesso».

Una riscoperta.
«La cosa che mi faceva riflettere è che non ho mai trovato una biografia che si occupasse del Dante umano, che me lo avvicinasse umanamente. Era un Dante accademico, filologicamente inappuntabile, ed è per questo che ho cercato di dargli un certo tipo di seduttività attraverso la figura di Boccaccio, il poeta che più lo ha amato».

Quando lo studiò a scuola, non provò nessun sentore per l'amore che sarebbe esploso negli anni romani?
«Era un momento di sofferenza atroce dover studiare quei versi senza capire chi li aveva composti, quando e come. La mia scuola non mi ha fatto amare lo studio. Lo studio era una punizione».

Che studente era?
«Pessimo. Grazie a mia madre frequentavo delle scuole paritarie private per cui si era promossi per ragioni misteriose».

Cosa voleva diventare da grande a quel tempo?
«Qualcuno che piacesse a tutti: ero pronto a qualunque scorciatoia pur di piacere. Essendo un ragazzo timido, complessato e bruttarello non ho vissuto un'adolescenza facilissima, ma oggi sono riconoscente a quella stagione della mia vita».

Altri ricordi di quella stagione?
«Bevevo tanti Campari soda per essere simpatico, mi chiamavano Peppino Camparino. Ero quello che alle feste non ballava. Posso dirle, però, che tutto questo mi ha trasformato in un grande osservatore del modo di vivere degli altri».

Quando ha fatto pace con il fatto di voler piacere a tutti?
«Non l'ho ancora fatta. Io e Lucio Dalla ce lo chiedevamo spesso: ma perché vogliamo avere successo? Semplice, perché dentro di noi conviveva ancora il ragazzo sfigatello di Bologna che aveva dei problemi».

Eppure sia lei che Dalla avete deciso di intraprendere una carriera che vi ha portati, per forza di cose, a subire il giudizio degli altri.
«Negli ultimi tempi della sua vita ero diventato amico di Federico Fellini: quando mi invitò, insieme ad altre otto persone, a una proiezione privatissima de La voce della luna telefonò quattro volte per sapere se ci piaceva, anche se sapeva che avremmo urlato al miracolo anche se ci avesse mostrato due ore di nulla. Siamo sempre ricattati dal consenso e dall'approvazione. Quando sono a una proiezione, si accedono le luci in sala e qualcuno si avvicina per dirmi ”vuoi la verità?" io rispondo di no. Non la voglio. Voglio un complimento».

Quindi è un luogo comune quello che vede le persone mature menefreghiste e più libere di esprimersi, secondo lei?
«L'aver fatto tanti film ti rende più vulnerabile e debole, perché ogni cosa che fai includerà sempre tutto quello che hai fatto. Per descriverlo ricorro sempre alla metafora del poker: davanti a te hai le fiches che hai vinto, che rappresentano i film che hai fatto. Quando ne hai uno nuovo in canna, le sospingi al centro del tavolo e dici "banco": a ogni film che fai, ti giochi la tua carriera. Io avverto questo».

Non è giudizio un po' severo? Dopotutto, nell'arte, se si sbaglia un film c'è sempre l'idea che il prossimo andrà meglio.
«Parlare di un prossimo film non è poi così semplice e scontato nel mio caso».

Ma lei in questo momento ne sta pensando un altro.
«Mi voglio regalare un futuro, ma forse sto mentendo a me stesso». 

Eppure ogni volta che nelle interviste le chiedono quando andrà in pensione lei risponde picche.
«Perché ho la sensazione di dover ancora fare il film della mia vita».

Quello definitivo, intende?
«Quello definitivo spero di non farlo mai. Spero, però, di avere sempre l'ambizione di poter migliorare. Vedo molti colleghi appagati e orgogliosi di quello che fanno, impegnati a mostrare il bavero pieno di decorazioni, a ostentarlo. Io no. Forse per scaramanzia. Non sono così sicuro che quello che ho fatto è meglio di quello che avrei potuto fare».

È un pensiero comune a tutti questo, però.
«Infatti c'è chi lo dice e chi non lo ammette».

Cosa la spaventa della stasi?
«Non riesco a stare fermo. Dentro di me è innata la sensazione di avere ancora molto da raccontare. Ed è strano. Il fisico si manifesta via via sempre più recalcitrante, ormai mi è rimasto solo l'appetito. Invece intellettualmente no. La mia intellettualità non coincide con il fisico, perché mi sento ancora un ragazzo».

Un ragazzo a cui, puntualmente, le chiedono sempre un pensiero sulla morte: si è stancato di rispondere a questa domanda?
«Sono io che ne parlo perché la cultura contadina da cui provengo mi ha educato a farlo: le persone che vengono da quel mondo lì non hanno pudore. Anzi, hanno una sorta di civetteria nel parlare della propria fine. Una cosa che la cultura di oggi ci ha inibito dal fare».

 Per ricevere l'altra cover di Vanity Fair (e molto di più), iscrivetevi a Vanity Weekend.


 


 

VANITY FAIR CONSIGLIA

Pupi Avati: «Morire mi farebbe sentire in colpa»

È morto Gianni Cavina, attore cult di Pupi Avati

Neri Marcorè: «La bellezza di vivere leggeri»

L'amore immortale secondo Pupi Avati: «La precarietà degli affetti è il male assoluto»